La situazione sociale e politica nella Striscia di Gaza e in Palestina in prospettiva storica Alcuni appunti dopo la morte di Vittorio Arrigoni La morte di Arrigoni riporta con il dramma l'impellenza di un'attenzione costante a quanto si muove nelle terre di Palestina, onde evitare di non riuscire a comprendere i tragici avvenimenti delle scorse settimane. La Palestina, considerata dai molti che agiscono in solidarietà con la causa della sua emancipazione come indirizzata unitariamente verso la Vittoria, vive in realtà profondi contrasti interni che, oltre a minare le possibilità di azione, portano nei territori un'endemica violenza fra schieramenti avversi e un serpeggiante autoritarismo, mantenuto da corruzioni e ricatti fatti con le armi, di cui la prima vittima è il popolo palestinese stesso. Gli scontri che abbiamo visto esplodere fra militanti di Al-Fatah ed Hamas all'indomani della vittoria elettorale di quest'ultima organizzazione nel gennaio 2006 sono solo il risultato più evidente di un percorso di malessere e sfruttamento politico del malcontento che è stato sempre parte della storia dell'emancipazione della Palestina e che di volta in volta è emerso in forme politiche e sociali differenti. La lettura dei fenomeni dalla prospettiva degli avvenimenti della striscia di Gaza risulta molto utile in quanto questa porzione di territorio palestinese ha vissuto, nel corso degli anni, i cambiamenti in maniera molto diretta per l'altissimo numero di profughi che qui hanno vissuto sin dal primo insediamento dello Stato di Israele. L'accento posto sulla presenza dei profughi è dovuto al fatto che questi, essendo la parte della società palestinese che più di ogni altra ha vissuto sulla propria pelle il peso dell'occupazione e dell'abbandono delle proprie terre, sono stati fra i più disponibili alla resistenza e all'organizzazione politica. Dopo la sconfitta del 1948 fra i profughi serpeggiava un profondo malcontento per lo scarso impegno da parte delle elite politiche e militari arabe nei confronti della causa palestinese. Nella "Guerra dei Sei giorni" del 1967 questo sentimento si approfondì: gli eserciti arabi non solo non liberarono quella parte di Palestina occupata dagli Israeliani, ma persero anche ampie porzioni dei loro stessi territori; lo Stato d'Israele occupò infatti la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, la penisola del Sinai, Gerusalemme est e le alture del Golan. Da questo malcontento si creò un terreno fertile per le nuove organizzazioni della Resistenza palestinese che, ponendo al centro del dibattito la necessità che fossero i palestinesi stessi ad occuparsi della propria emancipazione e non gli stati arabi, reclutarono un forte numero di militanti. Le forze della Resistenza iniziarono così a presentarsi, attraverso l'OLP sotto guida di Arafat,(che nel congresso del 1968 aveva scalzato la vecchia dirigenza sciovinista legata agli interessi di Egitto e Arabia Saudita), come la struttura di dirigenza della Palestina, mantenendo un equilibrio ed un controllo che rimase sostanzialmente inalterato fino alla prima Intifada del 1987. L'Intifada infatti (che si scatenò per un incidente fra un autocarro militare israeliano ed un automezzo che trasportava dei palestinesi che rimasero uccisi, percepito come un'ulteriore riconferma dell'atteggiamento arrogante dei militari israeliani nei confronti dei civili) scavalcò questi meccanismi di rappresentanza politica, sviluppandosi come un'autentica ribellione spontanea e popolare, capace fra l'altro di darsi un'organizzazione autonoma dalla dirigenza dell'OLP in esilio a Tunisi: nella Orient House di Gerusalemme est si installò una sorta di 'dirigenza provvisoria' che si occupava, oltre che degli sviluppi della rivolta, anche della gestione, tramite un sistema di tawaqim (squadre), di quei servizi di primaria necessità, come ospedali e scuole, che periodicamente venivano chiusi e resi inaccessibili dall'esercito israeliano, mantenendo come punto di riferimento i comitati democratici di base sviluppatisi nei villaggi e nei campi profughi. Si prefigurava così una sorta di struttura della futura autonomia palestinese, che si presentò con dei suoi rappresentanti, esponenti della società civile, alla Conferenza di Pace del 1991 a Madrid. Però, già nella seconda fase di trattative, a questo gruppo subentrò l'OLP, i cosiddetti 'tunisini', che iniziò da quel momento a mettere in ombra l'operato della società civile che autonomamente si era mossa. Tale passaggio, assieme alla delusione provata per l'esito degli accordi di Oslo del 1992, in cui, a fronte di alcuni risultati ottenute molte questioni cogenti (come l'apertura delle frontiere, la gestione dei servizi- l'importantissimo problema dell'erogazione dell'acqua-, il ritorno dei profughi, la piena sovranità dell'autonomia palestinese e gli insediamenti dei coloni ebraici) vennero demandate a successivi accordi, aumentò la frustrazione e il malcontento di coloro che con enorme attesa avevano guardato alla formazione di un'entità statuale autonoma e che si erano spesi in prima linea. Chi aveva combattuto nel corso dell'Intifada si trovava così ad essere scavalcato da dirigenti politici provenienti dall'esilio e che davano una propria linea di controllo e di potere alla nuova autonomia; ad esempio, nel 1998 escono dal primo governo Arafat due esponenti della resistenza all'interno dei territori occupati Haidar Abdel Shafi, presidente della Luna Crescente Rossa di Gaza e Hanan Ashrawi, organizzatrice di associazioni per la tutela delle donne e per i diritti umani molto popolare nei campi profughi, in quanto percepivano con forza lo schiacciante predominio delle gerarchie e delle burocrazie dell'esilio, che negli anni successivi verranno anche travolte da scandali e corruzione. Il vasto senso di frustrazione, l'impressione di tradimento da parte delle dirigenze politiche, la percezione dell'arricchimento di queste e il parallelo mancato miglioramento delle condizioni sociali, porteranno molti ex resistenti ad assumere un ruolo determinate nel cambiamento degli equilibri politici all'interno dell'Autonomia. Questo dato è da tenere in piena considerazione in quanto in Palestina è sempre stato presente il rischio di una crescente militarizzazione della società: i lunghi anni di resistenza hanno portato il numero dei combattenti a crescere in maniera esponenziale e, nei momenti di apparente assenza di conflittualità, questi risultano incapaci di inserirsi nel mercato del lavoro, non avendo accumulato nell'arco degli anni altra esperienza che quella della guerriglia e avendo investito le proprie energie per la costruzione di un'autonomia territoriale che non sembra rispondere alle proprie aspettative di redistribuzione dei beni. Così, a fronte di una vasta disoccupazione, accentuata dalla chiusura delle frontiere israeliane, drammatica per la maggioranza dei lavoratori palestinesi, costituita da operai non qualificati che lavorano nei cantieri israeliani, e dall'incentivo all'immigrazione straniera da parte del governo israeliano per colpire i palestinesi, diversi di questi ex combattenti hanno iniziato a guardare con simpatie a quegli enti di assistenzialismo religioso (come inizialmente era anche Hamas), gli unici ad offrire degli aiuti assieme all'UNRWA (agenzia ONU per i rifugiati di guerra). Le organizzazioni religiose, aiutate anche dai finanziamenti provenienti dai paesi arabi, sono così state in grado di avere una propria struttura militare, capace di concorrere con le tante altre strutture militari e paramilitari presenti nei territori dell'autonomia, create per canalizzare l'afflusso di ex combattenti (basti pensare che ogni ministero è dotato di un proprio apparato di polizia e di servizi segreti). In una linea di prosecuzione di tale situazione possiamo immaginare che in una possibile indipendenza palestinese un peso enorme troverebbero gli apparati di sicurezza, che potrebbero anche divenire il perno fondamentale della gestione della società. Allora si riconfermerebbe l'importanza della presenza, seppur minoritaria, di quei gruppi libertari che mantengono come priorità quella della crescente riduzione della conflittualità fra i due popoli e della vigilanza nei confronti delle possibili derive autoritarie che può prendere la società palestinese e di un ritorno allo spirito dei comitati di base della Prima Intifada. Jacopo Frey Bibliografia Giancarlo Iannutti, Storia della Palestina, Datanews, 2006 Eric Salerno, Israele. La guerra dalla finestra, Editori Riuniti, 2002 Ilian Pappe, Storia della Palestina Moderna. Una terra due popoli, Einaudi, 2005 Alain Gresh, Israele, Palestina . Le verità su un conflitto, Einaudi Tascabili 2004 Palestina:un popolo, una società, uno stato, "Politica Internazionale", numero speciale marzo 1979 Hussein J- Agha, Quale stato per i palestinesi, "Politica Internazionale", n. 2 febbraio 1978