L’INVISIBILE POPOLO DEI NUOVI POVERI
di Marco Revelli
13 dic 2013

Torino è stata l’epicentro della cosid­detta “rivolta dei for­coni”, almeno fino o ieri. Torino è anche la mia città.
Così sono uscito di casa e sono andato a cer­carla, la rivolta, per­ché come diceva il pro­ta­go­ni­sta di un vec­chio film, degli anni ’70,
ambien­tato al tempo della rivo­lu­zione fran­cese, «se ‘un si va, ‘un si vede…».
Bene, devo dirlo sin­ce­ra­mente: quello che ho visto, al primo colpod’occhio, non mi è sem­brata una massa di fasci­sti.
E nem­meno di tep­pi­sti di qual­che clan spor­tivo. E nem­meno di mafiosi o camor­ri­sti, o di eva­sori impu­niti.
La prima impres­sione, super­fi­ciale, epi­der­mica, fisio­gno­mica – il colore e la fog­gia dei vestiti, l’espressione dei visi, il modo di muo­versi -, è stata quella di una massa di poveri.
Forse meglio: di “impo­ve­riti”. Le tante facce della povertà, oggi. Soprat­tutto di quella nuova.
Potremmo dire del ceto medio impo­ve­rito: gli inde­bi­tati, gli eso­dati, i fal­liti o sull’orlo del fal­li­mento,
pic­coli com­mer­cianti stran­go­lati dalle ingiun­zioni a rien­trare dallo sco­perto, o già costretti alla chiu­sura,
arti­giani con le car­telle di equi­ta­lia e il fido tagliato, auto­tra­spor­ta­tori, “padron­cini”, con l’assicurazione in sca­denza e senza i soldi per pagarla,
disoc­cu­pati di lungo o di breve corso, ex mura­tori, ex mano­vali, ex impie­gati, ex magaz­zi­nieri,
ex tito­lari di par­tite iva dive­nute inso­ste­ni­bili, pre­cari non rin­no­vati per la riforma For­nero, lavo­ra­tori a ter­mine senza più ter­mini,
espulsi dai can­tieri edili fermi, o dalle boîte chiuse.

Le fasce mar­gi­nali di ogni cate­go­ria pro­dut­tiva, quelle “al limite” o già cadute fuori, fino a un paio di anni fa ancora sot­tili, oggi in rapida, forse ver­ti­gi­nosa espan­sione…
Intorno, la piazza a cer­chio, con tutti i negozi chiusi, le ser­rande abbas­sate a fare un muro gri­gio come quella folla.
E la “gente”, chiusa nelle auto bloc­cate da un fil­tro non asfis­siante ma suf­fi­ciente a gene­rare disa­gio, anch’essa presa dai pro­pri pro­blemi,
a guar­darli – almeno in quella prima fase – con un certo rispetto, mi è parso.
Come quando ci si ferma per un fune­rale. E si pensa «potrebbe toc­care a me…».
Loro alza­vano il pol­lice – non l’indice, il pol­lice – come a dire «ci siamo ancora»,
dalle mac­chine qual­cuno rispon­deva con lo stesso gesto, e un sor­riso mesto come a chie­dere «fino a quando?».

Altra comu­ni­ca­zione non c’era: la “piat­ta­forma”, potremmo dire, il comun deno­mi­na­tore che li univa era esi­lis­simo, ridotto all’osso.
L’unico volan­tino che mostra­vano diceva «Siamo ITALIANI», a carat­teri cubi­tali, «Fer­miamo l’ITALIA».
E l’unica frase che ripe­te­vano era: «Non ce la fac­ciamo più».
Ecco, se un dato socio­lo­gico comu­ni­ca­vano era que­sto: erano quelli che non ce la fanno più.
Ete­ro­ge­nei in tutto, folla soli­ta­ria per costi­tu­zione mate­riale, ma acco­mu­nati da quell’unico, ter­mi­nale stato di emer­genza.
E da una visce­rale, pro­fonda, costi­tu­tiva, antro­po­lo­gica estraneità/ostilità alla poli­tica.

Non erano una scheg­gia di mondo poli­tico viru­len­tiz­zata. Erano un pezzo di società disgre­gata.
E sarebbe un errore imper­do­na­bile liqui­dare tutto que­sto come pro­dotto di una destra gol­pi­sta o di un popu­li­smo radi­cale.
C’erano, tra loro quelli di Forza nuova, certo che c’erano. Come c’erano gli ultras di entrambe le squa­dre.
E i cul­tori della vio­lenza per voca­zione, o per fru­stra­zione per­so­nale o sociale.
C’era di tutto, per­ché quando un con­te­ni­tore sociale si rompe e lascia fuo­riu­scire il pro­prio liquido infiam­ma­bile, gli incen­diari vanno a nozze.
Ma non è quella la cifra che spiega il feno­meno. Non s’innesca così una mobi­li­ta­zione tanto ampia, diver­si­fi­cata, mul­ti­forme come quella che si è vista Torino.
La domanda vera è chie­dersi per­ché pro­prio qui si è mate­ria­liz­zato que­sto “popolo” fino a ieri invi­si­bile.
E una pro­te­sta altrove pun­ti­forme e selet­tiva ha assunto carat­tere di massa…

Per­ché Torino è stata la “capi­tale dei for­coni”? Intanto per­ché qui già esi­steva un nucleo coeso – gli ambu­lanti di Parta Palazzo,
i cosid­detti “mer­ca­tali”, in agi­ta­zione da tempo – che ha fun­zio­nato come prin­ci­pio orga­niz­za­tivo e deto­na­tore della pro­te­sta, in grado di rami­fi­carla e pro­muo­verla capil­lar­mente.
Ma soprat­tutto per­ché Torino è la città più impo­ve­rita del Nord. Quella in cui la discon­ti­nuità pro­dotta dalla crisi è stata più vio­lenta.
Par­lano le cifre.

Con i suoi quasi 4000 prov­ve­di­menti ese­cu­tivi nel 2012 (circa il 30% in più rispetto all’anno pre­ce­dente, uno ogni 360 abi­tanti come cer­ti­fica il Mini­stero),
Torino è stata defi­nita la “capi­tale degli sfratti”.
Per la mag­gior parte dovuti a “moro­sità incol­pe­vole”, il caso cioè che si veri­fica «quando, in seguito alla per­dita del lavoro o alla chiu­sura di un’attività,
l’inquilino non può più per­met­tersi di pagare l’affitto».
E altri 1000 si pre­an­nun­ciano, come ha denun­ciato il vescovo Nosi­glia, per gli inqui­lini delle case popo­lari
che hanno rice­vuto l’intimazione a pagare almeno i 40 euro men­sili impo­sti da una recente legge regio­nale anche a chi è clas­si­fi­cato “incol­pe­vole” e che non se lo pos­sono per­met­tere.
“Maglia nera” anche per le atti­vità com­mer­ciali: nei primi due mesi dell’anno hanno chiuso 306 negozi (il 2% degli esi­stenti, 15 al giorno) in città,
e 626 in pro­vin­cia (di cui 344 tra bar e risto­ranti). E’ l’ultima sta­ti­stica dispo­ni­bile, ma si può pre­sup­porre che nei mesi suc­ces­sivi il ritmo non sia ral­len­tato.
Altri quasi 1500 erano “morti” l’anno prima.
Men­tre per le pic­cole imprese (la cui morìa ha mar­ciato nel 2012 al ritmo di 1000 chiu­sure al giorno in Ita­lia)
Torino si con­tende con il Nord-est (altra area calda della rivolta dei “for­coni”) la testa della clas­si­fica,
con le sue 16.000 imprese scom­parse nell’anno, cre­sciute ancora nel primo bime­stre del 2013 del 6% rispetto al periodo equi­va­lente dell’anno prima
e del 38% rispetto al 2011 quando furono por­tate al pre­fetto di Torino, come dono di natale, le 5.251 chiavi delle imprese arti­giane chiuse nella provincia.

E’, letta attra­verso la mappa dei grandi cicli socio-produttivi suc­ce­du­tisi nella tran­si­zione all’oltre-novecento,
tutta intera la com­po­si­zione sociale che la vec­chia metro­poli di pro­du­zione for­di­sta aveva gene­rato nel suo pas­sag­gio al post-fordismo,
con l’estroflessione della grande fab­brica cen­tra­liz­zata e mec­ca­niz­zata nel ter­ri­to­rio,
la dis­se­mi­na­zione nelle filiere corte della sub­for­ni­tura mono­cul­tu­rale, la mol­ti­pli­ca­zione delle ditte indi­vi­duali
messe al lavoro in ciò che restava del grande ciclo pro­dut­tivo auto­mo­bi­li­stico, le con­su­lenze ester­na­liz­zate,
il pic­colo com­mer­cio come sur­ro­gato del wel­fare, insieme ai pre­pen­sio­na­menti, ai co​.co​.pro, ai lavori a som­mi­ni­stra­zione e inte­ri­nali di fascia bassa
(non i “cogni­tari” della crea­tive class, ma mano­va­lanza a basso costo…
Com­po­si­zione fra­gile, che era soprav­vis­suta in sospen­sione den­tro la “bolla” del cre­dito facile, delle carterevol­ving, del fido ban­ca­rio tol­le­rante, del con­sumo coatto.
E andata giù nel momento in cui la stretta finan­zia­ria ha allun­gato le mani sul collo dei mar­gi­nali, e poi sem­pre più forte, e sem­pre più in alto.
Non è bella a vedere, que­sta seconda società riaf­fio­rata alla super­fi­cie all’insegna di un sim­bolo tre­men­da­mente obso­leto,
pre-moderno, da feu­da­lità rurale e dajacque­rie come il “for­cone”, e insieme por­ta­trice di una iper­mo­der­nità implosa.
Di un ten­ta­tivo di una tran­si­zione fal­lita. Ma è vera.
Più vera dei riti vacui ripro­po­sti in alto, nei gazebo delle pri­ma­rie (che pure dice­vano, in altro modo, con bon ton, anch’essi che “non se ne può più”) o nei talk show tele­vi­sivi.
E’ sporca, brutta e cat­tiva. Anzi, incat­ti­vita. Piena di ran­core, di rab­bia e per­sino di odio. E d’altra parte la povertà non è mai serena.

Niente a che vedere con la “bella società” (e la “bella sog­get­ti­vità”) del ciclo indu­striale, con il lin­guag­gio del con­flitto rude ma pulito.
Qui la poli­tica è ban­dita dall’ordine del discorso. Troppo pro­fondo è stato l’abisso sca­vato in que­sti anni tra rap­pre­sen­tanti e rap­pre­sen­tati.
Tra lin­guag­gio che si parla in alto e il ver­na­colo con cui si comu­nica in basso. Troppo vol­gare è stato l’esodo della sini­stra, di tutte le sini­stre, dai luo­ghi della vita.
E forse, come nella Ger­ma­nia dei primi anni Trenta, saranno solo i lin­guaggi gut­tu­rali di nuovi bar­bari a incon­trare l’ascolto di que­sta nuova plebe.
Ma sarebbe una scia­gura – peg­gio, un delitto – rega­lare ai cen­tu­rioni delle destre sociali il mono­po­lio della comu­ni­ca­zione con que­sto mondo
e la pos­si­bi­lità di quo­tarne i (cat­tivi) sen­ti­menti alla pro­pria borsa. Un enne­simo errore. Forse l’ultimo.

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SIAMO UN PO’ PIU’ UGUALI AI MOVIMENTI GLOBALI
di Guido Viale
13 dic 2013

So ben poco, oltre a quanto cia­scuno di noi può desu­mere da foto, fil­mati, repor­tage e com­menti pub­bli­cati da gior­nali e inter­net in que­sti giorni,
o da qual­che incon­tro for­tuito, sul movi­mento “Fer­miamo l’Italia” ovvero “9 dicem­bre”;
ma non mi sento per que­sto in una con­di­zione molto diversa da altri com­men­ta­tori, per­ché tutti sono (siamo) stati presi alla sprovvista.
Que­sta è una rivolta, covata, ma anche pre­pa­rata e cre­sciuta per più di un anno, fuori dal cono di luce dei media.
Quanto scrivo non ha quindi la pre­tesa di un’analisi di que­sto movi­mento.
E’ solo un mode­sto ten­ta­tivo di aprire una discus­sione con qual­che let­tore di un’area poli­tica e cul­tu­rale a cui di fatto appar­tengo,
anche se ne con­di­vido sem­pre meno peri­me­tro e impostazioni.
Innan­zi­tutto, non chia­mia­moli “For­coni”. For­coni è il sim­bolo delle jac­que­ries di un tempo – un arnese peral­tro un po’ attem­pato, come lo sono la falce e il mar­tello –
ovvero la sigla di una delle com­po­nenti di que­sto movi­mento.
La mag­gior parte dei coloro che par­te­ci­pano al movi­mento l’hanno chia­mato – e non a caso — “Fer­miamo l’Italia” o “9 dicem­bre”. Rispet­tia­mone la volontà.
Per mesi si è svolto su rivi­ste e blog di sini­stra un dibat­tito sul per­ché in Ita­lia non ci siano stati movi­menti di piazza ana­lo­ghi a quelli di Gre­cia, Spa­gna o Stati uniti,
nono­stante il nostro paese sia uno tra i più col­piti dalla crisi, dall’economia del debito e dal mal­go­verno.
La rispo­sta più intel­li­gente e com­pleta – ma non per que­sto la più con­vin­cente – è stata quella del col­let­tivo WuMing:
il movi­mento Cin­que stelle avrebbe di fatto assor­bito e inca­na­lato una ten­sione pre­ve­nen­done l’esplosione in piazza.
Adesso eccolo quel movi­mento! In forme com­ple­ta­mente diverse da quelle che chiun­que
– e in par­ti­co­lare la cul­tura della sini­stra e il movi­mento dei comi­tati, dei cen­tri sociali e delle asso­cia­zioni; ma in gran parte anche il movi­mento Cin­que stelle –
se lo sarebbe potuto o voluto aspet­tare. Ma pro­dotto incon­te­sta­bile della crisi, dei debiti e del mal­go­verno.
Non è e non sarà la sola mani­fe­sta­zione di rivolta con­tro que­sto stato di cose.
Quella rivolta l’abbiamo già vista, in forme più ordi­nate e pro­dut­tive, in Val di Susa
(là dove le “lar­ghe intese” sono state pro­get­tate e spe­ri­men­tate per imporre il Tav, uno dei più deva­stanti pro­dotti a cui è appro­data quella cul­tura
della cre­scita senza obiet­tivi che impronta di sé tutto il pen­siero unico);
oppure tra i lavo­ra­tori e i cit­ta­dini liberi e pen­santi di Taranto; o, in forme più con­formi a una visione con­so­li­data del con­flitto di classe, tra di dipen­denti dell’Atm di Genova.
Ne vedremo altre nei pros­simi mesi, com­presa l’evoluzione che assu­merà quella di que­sti giorni, e in forme che non man­che­ranno di sor­pren­derci e — per­ché no? — di spa­ven­tarci.
Il con­flitto di classe, diceva un tale a pro­po­sito della rivo­lu­zione, che qui non è all’ordine del giorno, «non è un pranzo di gala».
Cinquant’anni fa, nel 1962, e pro­prio a Torino, una rivolta di piazza inne­scata da una mani­fe­sta­zione indetta dalla Cgil con­tro la Uil,
(fir­ma­ta­ria di un accordo sepa­rato con la Fiat per bloc­care la lotta ope­raia in una fab­brica
che era stata per più di un decen­nio tea­tro della più spie­tata oppres­sione padro­nale) era “dege­ne­rata” in quelli che sono pas­sati alla sto­ria come i fatti di Piazza Sta­tuto.
Sor­pren­dendo tutti, per­ché nes­suno se li aspet­tava; anche per­ché ai primi mani­fe­stanti si era aggiunta, tenendo la piazza per alcuni giorni,
una folla ster­mi­nata di attori di incerta clas­si­fi­ca­zione sociale: non la classe ope­raia inqua­drata da sin­da­cati e par­titi,
ma una folla ano­nima di ope­rai di pic­cole e pic­co­lis­sime fab­bri­che, di immi­grati e disoc­cu­pati, di gente “senza arte né parte”:
subito tac­ciati come “pro­vo­ca­tori” dal Pci, che pure avrebbe poi dovuto con­tare tra gli arre­stati anche diversi suoi mem­bri e per­sino un fun­zio­na­rio.
Eppure, a distanza di anni, gli sto­rici con­cor­dano nel vedere in quei moti la scin­tilla di un risve­glio e la mani­fe­sta­zione di una nuova com­po­si­zione sociale
che di lì a qual­che anno sareb­bero stati pro­ta­go­ni­sti dell’autunno caldo del ‘69 e delle lotte sociali del ’68 e degli anni Settanta.
Quello che si può dire oggi di que­sti mani­fe­stanti che si dichia­rano “popolo” e che si rico­no­scono nella ban­diera tri­co­lore è che
— al di là dell’indignazione che li acco­muna alle mani­fe­sta­zioni di Gre­cia, Spa­gna e Stati uniti, ma anche di Tur­chia e Bra­sile, e prima ancora, di Tuni­sia ed Egitto,
e che in Ita­lia non si erano ancora viste — è che a venire in primo piano è la loro iden­tità di poveri o di impo­ve­riti: la mani­fe­sta­zione nuova e dila­gante
— ma trat­tata finora dai media solo con numeri e per­cen­tuali – di per­sone che non ce la fanno più.
E non solo per­ché sono esa­spe­rati (in una maniera o nell’altra, lo siamo tutti o quasi); ma pro­prio per­ché non sanno più come cam­pare:
non hanno più lavoro né impresa (ambu­lanti, auto­tra­spor­ta­tori e agri­col­tori sono il cuore della rivolta); né red­dito, né pos­si­bi­lità di stu­diare,
né pen­sioni suf­fi­cienti, né casa; né, soprat­tutto, pos­si­bi­lità di intra­ve­dere un qual­siasi futuro diverso dal pro­trarsi all’infinito di que­sta loro con­di­zione.
Sono il pro­dotto maturo della finan­zia­riz­za­zione e della glo­ba­liz­za­zione dell’economia, di quei poteri
che hanno fatto terra bru­ciata di tutto quanto ancora esi­steva tra la loro nuda vita e il potere di Stati, isti­tu­zioni e capi­tale;
il segno più tan­gi­bile del fatto che «così non si può più andare avanti». Sono l’avanguardia che lo grida e che lo fa capire a tutti.
Ha indi­gnato molta stampa ben­pen­sante – soprat­tutto di centro-sinistra – la chiu­sura for­zata, per lo più senza epi­sodi di vio­lenza, impo­sta dai mani­fe­stanti a negozi e pub­blici eser­cizi.
Ma per chi il con­flitto lo deve fare in piazza per­ché non ha o non ha più un luogo di lavoro da cui far sen­tire le sue richie­ste, quella è una forma di lotta.
Come un pic­chetto ope­raio: quello che alcuni chia­mano un’arbitraria limi­ta­zione alla libertà di lavo­rare;
ma vai poi a vedere che cosa suc­cede di quella libertà in una ordi­na­ria gior­nata lavo­ra­tiva, una volta che i can­celli della fab­brica si sono rin­chiusi.
L’Ilva non ha inse­gnato niente?
Scan­dalo e soprat­tutto timore anche per­ché i poli­ziotti si sono levati i caschi e hanno depo­sto gli scudi di fronte ai mani­fe­stanti
con­tro cui si erano scon­trati fino a pochi minuti prima. Non è forse un atto di soli­da­rietà nei loro con­fronti, pre­lu­dio – dio non voglia! – a una diser­zione dai loro com­piti?
Sì; è un atto di soli­da­rietà e di fra­tel­lanza, chec­ché ne dicano i sin­da­cati di poli­zia, anche se pro­ba­bil­mente sug­ge­rito
— o impo­sto e con­cor­dato con le orga­niz­za­zioni fasci­ste che par­te­ci­pano alle mani­fe­sta­zioni — dai supe­riori o dagli alti comandi delle “forze dell’ordine”.
Pro­prio quei coman­danti a cui si rivolge a Grillo, per­ché per lui la soli­da­rietà non può nascere da un atto di ribel­lione, ma solo dall’obbedienza a un ordine;
men­tre andrebbe invece colta l’occasione per dire a quei tutori dell’ordine pub­blico: «la soli­da­rietà che avete mani­fe­stato a Torino e a Genova,
la pros­sima volta datela anche ai NoTav della Valle di Susa. Ne vale la pena»
.
La rivolta del 9 dicem­bre non andrà avanti a tempo inde­ter­mi­nato, ma nem­meno si dis­sol­verà come neve al sole.
Dopo le gior­nate della mobi­li­ta­zione soprag­giun­gerà il tempo del ripie­ga­mento e della rifles­sione.
E’ quello in cui potrà diven­tare pos­si­bile avvi­ci­narsi ai suoi pro­ta­go­ni­sti non solo con una pre­senza in piazza,
ma anche e soprat­tutto attra­verso un con­fronto e uno sforzo con­di­viso per enu­cleare obiet­tivi e riven­di­ca­zioni comuni.
Le forme assunte da que­sta mobi­li­ta­zione, che non è spon­ta­nea ma nean­che frutto di una pre­cisa orga­niz­za­zione,
ci pos­sono far capire quanto distino le forme reali della par­te­ci­pa­zione dalle forme strut­tu­rate della demo­cra­zia:
quella rap­pre­sen­ta­tiva dei Par­la­menti e dei con­si­gli comu­nali o regio­nali, ma anche quella par­te­ci­pa­tiva, di una gestione con­di­visa ben orga­niz­zata di riven­di­ca­zioni o di “beni comuni”.
Non che vadano messe in con­trap­po­si­zione; ma certo avvi­ci­narle non è un pro­cesso né auto­ma­tico né facile.
Altret­tanto signi­fi­ca­tiva è la dis­so­lu­zione, in que­sto ambito, delle tra­di­zio­nali con­trap­po­si­zioni tra destra e sini­stra.
Non che ciò debba signi­fi­care mischiarsi e con­fon­dersi con le orga­niz­za­zioni fasci­ste che a que­sti moti, o alla loro pre­pa­ra­zione, hanno preso parte.
Quelle orga­niz­za­zioni sono radi­cate anche, e ben di più, nelle destre fasci­ste e nazi­ste più tra­di­zio­nali, con cui nes­suna com­mi­stione è pos­si­bile.
Ma per la mag­gio­ranza di coloro che par­te­ci­pano a que­sti moti destra e sini­stra, come pure poli­tica, se non nell’accezione più pura di auto­go­verno, non hanno più alcun signi­fi­cato.
Con­tano le distin­zioni tra alto e basso, one­sto e ladro, povero e ricco, sfrut­tato e sfrut­ta­tore. Impa­riamo a riusarle.

da il manifesto

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Intervento anticipatore di Alberto Perino

di Alberto Perino (Teatro Don Bunino – Bussoleno 7 dic 2013)

Farò un intervento che forse farà storcere il naso a qualcuno ma che ritengo sia di grande attualità.
In questi giorni c’è stato un grande dibattito sui canali internet del movimento notav e non solo, in merito alle manifestazioni di protesta del 9 di dicembre in avanti.
Non sono intervenuto in quella sede perché se ce uno che è stato preso per i fondelli pesantemente dal fascio quell’uno sono stato io
e quindi non volevo mettere delle cose nero su bianco proprio per evitare che poi qualcuno facesse di nuovo degli altri scherzetti,
ma qui una serie di cose voglio dirle.
Noi abbiamo lanciato in questi mesi il grido in giro per l’Italia che bisogna resistere e bisogna opporsi bisogna, in parole povere, sollevarsi e non accettare lo status quo.
Ovviamente, siccome non siamo gli unici che facciamo politica in questo paese, noi la pensiamo in modo molto pulito ma ci sono altri che la fanno in modo meno pulito,
non era pensabile che tutta una serie di parole d’ordine che lanciavamo noi non venissero riprese
ma vorrei ricordare a tutti il rischio che queste parole d’ordine possono essere lasciate in mano ad altri.
Io non dico che dobbiamo andare a braccetto che dobbiamo confonderci con il fascio, tutt’altro,
però voglio ricordare a tutti che questa protesta se ci sarà, io spero che ci sia, sarà fatta dal popolo, sarà fatta dalla gente,
sarà fatta da gente stufa, da gente che non ne po’ più, da gente che ne ha le scatole piene di questo governo e di tutta la casta.

Noi abbiamo impiegato molti anni di ragionamenti e di riflessioni di discussioni per passare da una posizione Nimby (Not In My Back Yard, lett. “Non nel mio cortile”)
perché è la prima che sveglia la gente e io non mi scandalizzo e sono ben contento – finché non spieghi alla gente che gli stanno girando la casa al contrario
in genere impiega un momento a capire poi, dopo che ha capito, puoi andare avanti ma subito
per svegliarli bisogna che abbiano l’immagine di una ruspa e allora lì magari funziona.
Noi, dicevo, abbiamo impiegato degli anni per riuscire a far sì che diventasse patrimonio comune il discorso dei beni comuni,
il discorso del modello di sviluppo, il discorso che ricordo a tutti che quello che sta succedendo oggi, questo modo di andare avanti,
questo modo di procedere non è più accettabile non po’ continuare, dicevo però, abbiamo impiegato anni non giorni.
Abbiamo fatto un sacco di riunioni, abbiamo discusso è la gente ha capito, il popolo notav ha capito che questo modello di sviluppo non è più accettabile.

Noi non possiamo pensare che dove non c’è stata questa lunga e lenta maturazione la gente di colpo capisca tutta una serie di cose.
I mercandin, gli autotrasportatori, chi si trova a non essere più in condizioni di pagare le tasse,
chi si trova in condizioni di impiccarsi perché non sa più che cosa fare è difficile che abbia avuto il tempo, la voglia e la capacità di maturare una serie di cose che noi abbiamo maturato.
Allora secondo me bisogna davvero riuscire a fare quel famoso salto di qualità che noi come movimento notav abbiamo fatto
che è andare oltre agli slogan, oltre alle cose e cercare di capire che quando un popolo è oppresso in qualche modo si ribella
ma bisogna anche capire che non possiamo lasciare ad altri il campo.
Non possiamo lasciare ad altri il campo storcendo il naso e dicendo”ah, se ci sono questi noi non ci andiamo” perché il popolo che protesta magari ci andrà lo stesso.
Vorrei ricordare a tutti l’esperienza di Alba Dorata in Grecia e vorrei ricordare a tutti il rischio che queste cose si possano ripetere anche in Italia.
Stiamo molto attenti su queste cose. Pare da alcuni sondaggi, poi per carità per quel che valgono i sondaggi…
che Alba Dorata se si andasse alle elezioni in Grecia oggi sarebbe il primo partito.

Allora facciamo attenzione a queste cose, facciamo attenzione. Con la scusa di non volerci far strumentalizzare stiamo attenti a non fare in modo
che gli altri strumentalizzino la ribellione popolare che è pronta a montare e a scoppiare perché non si può pensare che tutti quanti abbiano fatto lo stesso percorso,
non si può pensare che tutti quanti siano puri e duri e non si può neanche pensare che tutti quanti siano sulle stesse posizioni.

Io credo che la gente debba essere incoraggiata, istruita, debba essere in qualche modo incoraggiata
a fare il salto di qualità a capire che questo modello di sviluppo non po’ più andare avanti*, anche i mercandin.
Non si può più pensare che magari siamo tornati indietro per cui non facciamo nessuno scontrino, non paghiamo più niente, non facciamo più niente etc,
però non possiamo neanche essere impiccati perché ricordate che questo governo i grandi regali li ha fatti soltanto alle banche e ai banchieri
i quali non hanno pagato le tasse – gliele hanno condonate – non solo ma ci stanno tagliando sanità, pensioni, scuole e tutto il resto per regalarli ai banchieri,
no ai commercianti, no ai piccoli imprenditori, no agli autotrasportatori.
È questo il discorso che dobbiamo ricordarci sempre molto bene perché siamo tutti piccoli, tutti tartassati.

Grazie.

..