L’OCEANO QUOTIDIANO Miguel Calzada

Il mio ufficio è un oceano, con tutti i naufraghi aggrappati ai tavoli. Tra di noi un’aria densa di salsedine e angoscia. Sai da quanto tempo non vado al mare? Qui le vacanze, come il saluto e il respiro, non te le prendi: te le danno. I capi ci chiamano ogni tanto. Dicono che dobbiamo essere eccellenti, prendere l’iniziativa. I più talentuosi hanno futuro, il resto andrà al macello. All’inizio ci credevo. Poi ho capito che facevano da intermediari per qualcuno. E ho avuto paura.
Non ti puoi fidare degli altri naufraghi. Anch’io ho cominciato a bisbigliare. Fai le tue mosse con l’ambizione di arrivare su un’isola. Urla, trema e puzza. Nella metro, verso casa, capisco dal riflesso dei vetri che quello non è un oceano bensì un acquario. Guarda che facce agonizzanti.
La noia terribile, la voglia di ammazzare. Sei sicuro di voler fare questo lavoro? Certo, signore, l’orizzonte appare sempre più luminoso. Ma che orizzonte? Ma tu lo sai da quanto è che non vado al mare, cazzo?
Il Babau sa che non ho talento, che non prenderò mai l’iniziativa, e lo dirà ai capi. Il Babau bisbiglia contro di me davanti alla macchina del caffè. Vorrei che mi bruciasse oppure bruciarlo. Ci vuole il fuoco in questo mondo annacquato.
Passo ore davanti allo specchio a cercarmi le branchie. Niente. Mi aggrappo al mio tavolo. Guardo l’orizzonte, il mio schermo. Aspetto con fede la chiamata del Babau. Solo voglio chiedergli una cosa: come mai non siamo ancora annegati?