Quando il crepuscolo prende a tingere le foglie e i ricci a infilzare il terreno, tutti i coscritti del regno di Babau si affrettano a seppellire in terra i loro occhi. Scavano una buca quadrata di quattro centimetri e profonda trentuno, con un cucchiaio d’argento mondato nello zolfo e nel mercurio estraggono dalle cavità i propri bulbi oculari, fiduciosi li ripongono in terra. Dopo tre giorni da ciascuna coppia di occhi nasce un albero dal tronco nodoso e ricurvo, vestito di mille frutti. Metà sono immagini di banale folle gioia, di noiose grida, di canti e balletti. Il resto dei doni della pianta sono ritratti di una figura seduta in una stanza dalle pareti di un blu scivoloso e carico di umido. Di fronte a una finestra, osserva una scena sfocata che avviene alle sue spalle. Nel debole riflesso dei vetri si agitano paure, ansie, angosce.
Vestito di nuvole e nebbia, il Babau pietoso manda la pioggia per mondare quei vetri e liberare l’orizzonte allo sguardo. Ma l’acqua intrisa di fluidi del Babau non terge quel debole riflesso, gli dona anzi un pizzico di realtà. Al termine dell’autunno i coscritti disseppelliscono i propri occhi e usando un ago di piombo li ricuciono al loro posto. Il mondo brucia così di mille mondi, mille piani di realtà che oscillano tra un ebete sorriso e la paura. Si prepara l’inverno nel regno di Babau.