Bene. L’esperimento di lavorazione è quello che vedete qui sotto. Forse è poco “leggibile” e più “da consultazione”, perché ho seguito uno schema effettivamente troppo semplice: ho proceduto per titolo e non per argomenti. È venuta fuori quindi una cosa molto schematica e poco narrativa, forse anche per questo i commenti si sono interrotti. Come prima prova, direi che può andare bene.
QUI c’è la tesina.. quasi 50 000 battute con le note, quindi penso che andrà sistemata per bene in vista del 15 luglio.

Aspetto un gruppo di correzione di bozze e magari i commenti dell’assemblea.

Testi di interesse specifico:

1. A.A. V.V., Studi in onore di Gino Luzzatto, vol. III, Giuffré, Milano 1950
2. AA. VV., «Storia d’Italia», Einaudi, Torino 1978, Annali I (Dal feudalesimo al capitalismo)
3. APRILE P., Terroni: tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali, Piemme, Milano 2010; (controllarne la bibliografia);
4. Archivio economico dell’unificazione italiana, Torino : ILTE
5. BEVILACQUA P., Breve storia dell’Italia meridionale: dall’Ottocento a oggi, Donzelli, Milano 1993;
6. BEVILACQUA P., Critica dell’ideologia meridionalistica: Salvemini, Dorso, Gramsci, Marsilio, Padova 1972;
7. CASSESE L., Le fonti della storia economica dell’Ottocento: il Regno di Napoli, a cura di Giovanni Muto, Pietro Laveglia, Salerno 1984;
8. DAVIS J. A., Società e imprenditori nel Regno borbonico, 1815-1860, Laterza, Roma 1979;
9. DE BERNARDI A., Storia dell’Italia unita, Garzanti 2010 → parte terza sull’economia.
10. DEL MONTE A., GIANNOLA A., Il Mezzogiorno nell’economia italiana, Il mulino, Bologna 1978;
11. DEMARCO D., Il crollo del Regno delle Due Sicilie: la struttura sociale, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 2000;
12. DEMARCO D., L’economia degli Stati italiani prima dell’unità, Istituto Poligrafico dello Stato, Libreria dello Stato, Roma 1957?, pp. 192-258 (Estr. da: Rassegna Storica del Risorgimento, a. 44, fasc. 2-3 (apr.-set. 1957);
13. GREENFIELD K. R., Economia e liberalismo nel Risorgimento: il movimento nazionale in Lombardia dal 1814 al 1848, Gius. Laterza & Figli, Bari 1940;
14. LEPRE A., Il Mezzogiorno dal feudalesimo al capitalismo, Società editrice napoletana, Napoli 1979
15. LUZZATTO G., Storia economica dell’età moderna e contemporanea: l’età contemporanea, vol. II, CEDAM, Padova 1952
16. MACK SMITH A., The peasants’ revolt of Sicily in 1860, in A.A. V.V., Studi in onore di Gino Luzzatto, vol III, Giuffré, Milano 1950.
17. MASSAFRA A., Il Mezzogiorno preunitario: economia, società e istituzioni
18. MERIGGI M., Gli Stati italiani prima dell’Unità. Una storia istituzionale, Bologna 2002
19. QUATTRONE D., Dal 1815 ad oggi: riflessioni sulla politica e l’economia d’Italia, il problema del Mezzogiorno e scritti vari fuori testo, Todariana, Milano 1983;
20. Risorgimento e Mezzogiorno: rassegna di studi storici, Istituto per la storia del Risorgimento, Comitato di Bari, Levante, Bari, n. 1/1990;
21. ROMEO R., Risorgimento e capitalismo, Laterza, Roma 1998;
22. SACCO D., Stato e società nel Mezzogiorno : momenti e problemi in età contemporanea, Manduria, Lacaita 2005;
23. SARACENO P., Il nuovo meridionalismo, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 2005
24. SERENI E., Il capitalismo nelle campagne (1860-1900): con un nuovo saggio introduttivo, Einaudi, Torino 1968;
25. SIRAGO M., Le città e il mare: economia, politica portuale, identità culturale dei centri costieri del Mezzogiorno moderno, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 2004;
26. VILLARI R., Problemi dell’economia napoletana alla vigilia dell’unificazione: con una scelta di testi, G. Macchiaroli, Napoli 1957 (Tip. L’arte Tipografica);
27. VINCI M. V., Osservazioni sulle idee economico-sociali nel nostro Risorgimento, Unione Tipografica, Milano 1951;
28. ZAMAGNI V., Dalla periferia al centro → la prima parte sull’economia preunitaria
29. ZILLI I. (cur.), Lo stato e l’economia tra restaurazione e rivoluzione, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1990?, in Storia economica del Mezzogiorno 9;

Appunti vari

Va notato che l’interpretazione fascista del Risorgimento è paradossale: esso (il fascismo), infatti, è proprio il principale fattore di inversione delle istituzioni liberali venute fuori dal processo unitario. Eppure, tale lettura è stata resa possibile (Casalena, 2010). Perché?

Vedi sempre i “Sommari di statistiche” dell’Istat.

Rosario Romeo

Risorgimento e capitalismo, Laterza, Roma-Bari 1959.

L’opera è la raccolta di due saggi apparsi rispettivamente nel 1956 e nel 1958 sulla rivista « Nord e Sud ». Fanno entrambi parte del dibattito ingaggiato da Romeo (liberale, sulla scia del Croce) contro le “nuove tendenze” storiografiche marxiste, secondo l’autore tutte riconducibili all’interpretazione gramsciana del risorgimento come di una « rivoluzione agraria mancata ». Ha conosciuto notevole successo editoriale, quindi numerose ristampe. È ormai un classico della storiografia liberale.

Parte I. La storiografia marxista nel secondo dopoguerra (or. La storiografia politica marxista)

Parte II. Lo sviluppo del capitalismo in Italia dal 1861 al 1887 (or. Problemi dello sviluppo del capitalismo…)

Come avrà modo di scrivere altrove (L’Italia unita e la prima guerra mondiale, Bari 1978, p. 28, cit. in P. Villani, Gruppi sociali e classe dirigente all’indomani dell’Unità, in «Storia d’Italia», Torino 1978, p. 883):

«il momento decisivo del moto per l’unità italiana resta […] l’iniziativa politica e intellettuale dei gruppi d’avanguardia; e ogni tentativo di ricostruirlo in funzione di interessi economici è condannato inevitabilmente a fallire. Tutto ciò va detto non certo per negare l’importanza dell’analisi dei rapporti tra questa iniziativa intellettuale e politica e la realtà economica del paese: ma come necessario avviamento a una corretta impostazione del problema, che sfugga al pericolo di soluzioni fondate su elementari rapporti di tipo causalistico, e riesca invece a cogliere la ricca serie di reciproci condizionamenti che legano insieme e dànno un significato coerente e unitario alla spinta risorgimentale»

Riguardo all’interpretazione di Gramsci e al Partito d’Azione, v. Brian Pullan – Stuart J. Woolf, Plebi urbane e plebi rurali: da poveri e proletari, parte II: _ La formazione del proletariato_, in «Storia d’Italia», Einaudi, Torino 1978, Annali I (Dal feudalesimo al capitalismo), p. 1068-69:

«I poveri in Italia alla metà del secolo XIX, quali apparivano a coloro che avevano un’acuta coscienza sociale, continuavano a esistere, come era accaduto nei secoli passati in quanto una massa di individui essenzialmente passiva e indifferenziata. Essi rappresentavano un oggetto di compassione, e in alcuni casi una causa di preoccupazione. […] Nessun tentativo venne compiuto per ottenere il loro appoggio durante le lotte politiche del Risorgimento, se non dai democratici mazziniani. E Mazzini non solo limitò i suoi appelli agli artigiani delle città, ma non cessò mai di sottolineare l’importanza delle cooperazione e della collaborazione delle classi. La coesione sociale rimaneva l’ideologia dominante. Le insurrezioni di massa dovevano essere rifiutate, come Manin respinse l’appoggio nel 1848, e i garibaldini lo repressero nel 1861».

Sempre in Stuart J. Woolf:

«Nel Mezzogiorno l’industria domestica rurale fu distrutta dalla rigida adesione al libero scambio propugnata dai politici moderati al potere e dalle conseguenti importazioni di tessuti inglesi, più che dai risultati diretti dell’unificazione (che fece risentire i suoi effetti solo lentamente a partire dal completamento della principale struttura ferroviaria nel 1877)» (p. )

Gino Luzzatto

Storia economica dell’età moderna e contemporanea, II, Cedam, Padova 1952, cap. IV ( Tendenze nuove dell’economia italiana nel Settecento ).

Appunti su *Gino Luzzatto e mie considerazioni*. Il campo d’indagine dell’economia è sempre stato preso in grande considerazione dalla storiografia sul Risorgimento e il processo di unificazione italiana. Almeno se ci concentriamo su quella stagione storiografica degli anni Cinquanta che rimette fortemente in discussione, con parti politiche fortemente delineate (Gramsci-Sereni vs. Romeo-Chabod [ ? ]). Ne è un esempio Gino Luzzatto, che nella sua storia economica → prende a descrivere la situazione italiana in termini di prospettiva unificatrice già dal Settecento: la sua interpretazione, in particolare, è che – mutate le correnti dei traffici commerciali – le città italiane perdono quella loro favorevole posizione geografica per le quali si erano trovate in un predominio internazionale di fatto. Perdendola, pur nelle normali resistenze della “vecchia mentalità mercantile”, si approda ad un rinnovato interesse per i problemi della terra (spinto sia dalla pressione demografica → rivoluzione agricola_, sia dal fatto che comunque il ceto dirigente delle grandi città aveva sempre posseduto terra in grandi quantità e, venendo meno gli alti profitti dei commerci via terra e via mare, vi si dedica con rinnovata intensità (lasciando quelle occupazioni a «_ad uomini nuovi, più ardimentosi, meno legati alla tradizione e che soprattutto non avessero un patrimonio da conservare [ … ] stranieri, di ebrei e di elementi della minore borghesia» (p. 153). Quindi sviluppo (corroborato da studi e tentativi di innovazione tecnica, nonché trattati politici a riguardo) dell’agricoltura accompagnato dalla lotta alle corporazioni artigiane cittadine, altro baluardo del vecchio sistema economico: ciò si attuò non abolendole (eccezioni: Toscana 1750, Lombardia 1778-1786, il Regno delle Due Sicilie lo fa nel 1821 → Demarco, p. 81.), cosa che avviene con la Rivoluzione, ma aprendo la possibilità di diventare “maestro”, innanzitutto come numero, e poi anche ai non cittadini, a volte anche stranieri. Tutto ciò accompagnato dall’apparire di alcune industrie domestiche (e a carattere capitalistico) che si concentrano nelle zone rurali, specie nel campo della seta (Valle Padana – Piemonte: collegamento Lione): coltivazione gelso, allevamento baco da seta, industria della trattura. E questo già dalla seconda metà del Settecento.

È questo, in generale, anche un momento (metà Settecento) in cui iniziano ad essere compilate con una maggiore attenzione le statistiche economiche (soprattutto doganali). Almeno a Venezia. Da controllare altrove.

Mutata funzione dei porti: prima le importazioni via mare sono alimentate dalle industrie cittadine e dalle importazioni nel retroterra straniero. Verso la metà del Settecento questo (almeno per Venezia e Livorno) si interrompe per lasciare spazio alla produzione regionale (nei centri minori, nelle industrie rurali) e alle materie prime provenienti dall’agricoltura.
Muta anche l’assetto istituzionale verso una maggiore considerazione del ruolo della campagna nell’economia dello stato e verso una perequazione di trattamento fra città dominante e contado provinciale (inteso anche con le cittadine minori): introduzione del catasto1 (= riorganizzazione della ripartizione dell’imposta fondiaria) e eliminazione delle dogane interne (meglio: affievolimento. L’eliminazione totale arriva verso la fine del secolo: Toscana 1781, Lombardia 1785, Napoletano 1791, Veneto 1794).

Molto interessante la nota di Luzzatto riguardo le riforme di Maria Teresa nel ducato di Milano (1748-1760): le riforme amministrative, quelle istituzionali nel catasto e quindi nella perequazione dell’imposta tributaria, il declino ormai avviato dell’economia cittadina medievale incarnata dalla coppia industria-commercio, rinnovano un forte interesse verso la terra: fatto di sicurezza del possesso, tributo fisso per un numero di anni adeguato e non arbitrario (questo perché la riforma catastale era stata particolarmente lunga e capillare), una restrizione dei diritti feudali sulla terra e dei possessi ecclesiastici, cui si aggiunge una rinnovata e pionieristica rete di trasporti interni al ducato (se si esclude l’alta montagna). Tutto ciò, aggiunto alla fine delle guerre della prima metà del XVIII sec., contribuisce a creare una classe di «nuova borghesia agraria» (p. 163) (commerciabilità della terra, maggiore frazionamento, proprietà diffusa) e quindi a rilanciare l’economia agraria della regione e ad aumentare la produttività della terra. Questo avviene sia nella media Lombardia (zona maggiormente interessata dalla presenza di un tessuto urbano), dove i nuovi ricchi provenienti dal commercio, dall’appalto di opere pubblichi, dall’industria della seta, investono nella terra; sia nella bassa Lombardia dove la riforma catastale toglie le numerose immunità sulle grandi tenute ecclesiastiche e nobiliari, obbligando i proprietari (per la perequazione tributaria) a dover aumentare la produttività della terra, cosa che raggiungono spezzando i loro latifondi e affittandoli con contratti a lunga scadenza.

Ancora più interessanti le considerazioni su «Artigianato e industria capitalistica» (p. 178 e ss.), in cui L. mette in luce tre cose:

«Perciò in molte città italiane, e in prima linea a Venezia, si chiede ad alta voce, e finalmente si ottiene, non la soppressione delle Arti, che sarà attuata soltanto dal governo napoleonico, ma la loro apertura» (p. 180).

«Una prova di quanto sia stata decisiva, in questo campo, l’opera della Rivoluzione si può vederla nella lentezza estrema con cui furono applicate, per l’assenza appunto di una forte spinta dal basso, le famose leggi eversive della feudalità nel Regno di Napoli, che, pubblicate fin dal 1807 incontrarono tali resistenze ed ostacoli che, 60 anni più tardi, l’abolizione dei diritti feudali era ancora incompleta.» (Luzzatto, p. 204)

«Ferdinando IV fonda a proprie spese, nel 1783, il laboratorio di S. Leucio per la tessitura della seta; l’anno dopo, egli istituì a Reggio Calabria una filanda e un filatoio sul modello piemontese», con l’innesco anche di effetti imitativi: «Il suo esempio fu presto seguito dai privati: compagnie di capitalisti istituirono fabbriche di panni fini a Napoli, di drappi serici a Messina, di canne di fucile a Torre Annunziata. Le fabbriche di maioliche in provincia di Teramo, quelle di porcellana a Capodimonte, di vetro a Napoli, crebbero di numero e perfezionarono i loro prodotti. Gli operai furono tratti dagli Stati più progrediti dell’Italia e dell’Europa occidentale, si fecero venire minatori alla Sassonia per lo sfruttamento delle miniere di ferro, e un certo numero di giovani napoletani fu mandato in Germania per apprendervi i segreti dell’arte siderurgica» (p. 186-87).

1 Riorganizzazione del catasto nei vari stati italiani: in generale hanno un vizio di fondo: si basano su scarso controllo e lasciano tutto alle dichiarazioni dei possessori (estimo personale), tentano poi tutti di risalire a diritti che risalgono alle autonomie cittadine (e quindi al predominio della città sulla campagna). Papa Innocenzo XI 1681, Carlo Emanuele I (Piemonte) 1622 – Vittorio Amedeo II (perfezionamento prov. Torino) (primi 700?) ma concluso solo dopo a: Novara-Lomellina (1775), Aosta (1783) e Monferrato (incompiuta al momento della conquista francese), Carlo III (Napoli) 1741. Il catasto ordinato da Maria Teresa d’Asburgo resta quello più esemplare che si svincola dalle problematiche intrinseche dell’estimo personale.

Germania-Italia

Fra Restaurazione e Rivoluzione (1815-1848)

G. Luzzatto (capp. VI, IX, XI) da incrociare con Ilaria Zilli, Lo Stato e l’economica tra Restaurazione e Rivoluzione. I. L’agricoltura (1815-1848). II. L’industria, la finanza e i servizi (1815-1848), in Storia economica del Mezzogiorno 9 (* e **), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997.

Gino Luzzatto, Storia economica dell’età moderna e contemporanea_, II, Cedam, Padova 1952, cap. XI (_Germania e Italia fino alla conquista dell’Unità nazionale)

«Anche nel Regno di Napoli, e specialmente nel Mezzogiorno continentale, dopo il primo ventennio della Restaurazione, durante il quale si lamenta lo stato estremamente triste delle comunicazione, l’isolamento e la grettezza della vita delle città di provincia, il perdurare, nonostante le leggi eversive, di istituti e metodi feudali, si comincia, dopo il 1835, a notare segni inaspettati e assai promettenti di risveglio. La libertà di esportazione della seta greggia, concessa nel 1824, incoraggia la ripresa della coltura del gelso e dell’allevamento dei bozzoli, in modo che – dieci anni dopo – si raggiunge una produzione di 400.000 kg. di seta greggia. L’industria della lana, con l’aiuto di un sistema doganale quasi proibitivo, prendeva un notevole sviluppo in varie province del Regno, impiegando quasi totalmente le lane dell’allevamento locale, e producendo, per lo più minuscoli opifici o con telai domestici, stoffe di qualità ordinaria destinate al consumo locale. Tuttavia alcune fabbriche, dotate di telai meccanici, sorgevano a Napoli e nella valle del Liri, producendo anche stoffe di qualità più fini. L’industria della lana, con l’aiuto di un sistema doganale quasi proibitivo, ma per la sola lavorazione, in forma domestica, della materia prima di produzione locale, è ora trasformata per opera di alcuni industriali svizzeri e tedeschi, i quali impiantano nella valle del Liri e nel Salernitano delle vere fabbriche per la filatura e la tessitura meccanica di cotoni d’importazione. Il numero complessivo di 30.000 fusi e di 200 telai meccanici, raggiunto nel 1840 dai cotonifici meridionali, non è certamente rilevante, ma rappresenta tuttavia un progresso notevole per un paese che era ai primi passi dell’industrializzazione.» (Luzzatto, p. 328-329)

Ilaria Zilli (cur.), Lo Stato e l’economica tra Restaurazione e Rivoluzione. I. L’agricoltura (1815-1848). II. L’industria, la finanza e i servizi (1815-1848), in Storia economica del Mezzogiorno 9 (* e **), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997.

Sono gli atti del convegno napoletano «Lo Stato e l’economia tra Restaurazione e Rivoluzione (1815-1848)», organizzato nel 1993 dall’Istituto di Studi sull’Economia del Mezzogiorno nell’età moderna del CNR.
Il passo fondamentale segnato dalla storiografia più recente (una sorta di seconda ondata di studi, che parte nell’ultimo ventennio del secolo scorso) è quello di considerare le numerose differenze territoriali interne al Regno delle Due Sicilie. Si tratta di ristabilire lo studio del Mezzogiorno in un quadro articolato e complesso nel quale il famoso dirigismo borbonico va ad incontrarsi con resistenze e disomogeneità di vario tipo. Se questo era chiaro per la Sicilia già nella storiografia degli anni Cinquanta (v. R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Laterza, Roma-Bari 1950), e non poteva non essere così, si sente nelle ricostruzioni di periodi più recenti una continua insofferenza verso quella polemica meridionalista che ha finito per formare, forse suo malgrado, un giudizio e un’attitudine mentale ai problemi del Mezzogiorno poco articolata e riduttiva.

«La necessità di destrutturare, come si diceva, le categorie interpretative rigide – come decadenza-progresso, tradizione-modernità, arretratezza-sviluppo – a cui si è spesso fatto ricorso per spiegare la realtà meridionale vale anche per altre realtà italiane preunitarie, soprattutto quello che, come il Mezzogiorno, presentavano delle evidenti gerarchie interne tra aree più o meno sviluppate pur racchiuse nei confini di uno Stato.» (p. XIX)

Notare: ricchezza di rimandi bibliografici nell’Introduzione. Tenere a mente per il futuro.

Domanda

La perdita del mercato estero dovrebbe spingere gli stati italiani pre-unitari ad uno sforzo di eliminazione delle barriere interne. C’è comunque da notare il tentativo di unione doganale del 1847 e la presenza nel dibattito (e nella sensibilità almeno di una fetta della classe dirigente degli stati preunitari) di questa tematica e di queste preoccupazioni2. Non fu così: perché?
Primi elementi di risposta:

D’altronde questo tipo di intervento non risultò facile da nessuna parte, in Europa: si veda a questo proposito l’opera di Turgot prima della Rivoluzione che, se fosse andata a buon fine, avrebbe portato la Francia ad una “via inglese”, se si vuole, cioè ad una fine del feudalesimo senza il bisogno della spinta dal basso inevitabilmente tumultuosa e violenta. Turgot, infatti, si guadagnò con questa sua operazione (tentativo di abolizione dogane, tentativo di soppressione delle corporazioni di mestiere) l’odio (e la resistenza) di un fronte vastissimo, nel quale si raccoglieva tutto un gruppo di interessi nient’affatto omogeneo, tanto da provocarne la caduta:

«nobiltà feudale e clero, maestri artigiani e bottegai, appaltatori di dazi, di pedaggi, tutte queste sopravvivenze delle vecchie economie chiuse avevano bensì di fronte a sé interessi ormai formidabili ed una larghissima corrente di opinione pubblica, ma avevano anche per sé la forza della tradizione di una organizzazione secolare, e non sarebbero caduti di un tratto se non fosse intervenuta una scossa violenta, che interrompesse quella tradizione e troncasse la base stessa di quella organizzazione» (Luzzatto 1939, p. 205).

La domanda, dunque, diventa: da dove viene fuori la questione meridionale? Essa ha radici profonde oppure contingenti al processo di unificazione? E se vi sono radici storiche profonde, quali sono gli svantaggi che il Regno delle Due Sicilie accumula nei confronti degli altri stati pre-unitari? E: si aggravano? Si riducono?

2 Ilaria Zilli, nell’Introduzione, nota: «L’economista napoletano Ludovico Bianchini, alla metà degli anni Cinquanta, analizzava dettagliatamente e con precise cognizioni di causa la validità e il significato dell’unione doganale tedesca, e la sua non doveva essere una voce isolata. Su questo tema, ovvero sui legami tra riflessione politica-economica tedesca ed italiana, non esistono molti studi specifici. Alcune interessanti indicazioni – che sembrano confermare lo scambio di idee e di proposte tra la realtà italiana e la realtà tedesca – si possono ricavare da un breve articolo di R. MORI, L’Italia ed il processo di unificazione germanica, pubblicato in Le relazioni italo-tedesche nell’epoca del risorgimento, Atti della Conferenza e discussione dell’8a Riunione italo-tedesca degli storici, Braunschweig 24-28 maggio 1968, Braunschweig, A. Limbach Verlag, 1970, pp. 21-38» (p. XV).

Domenico Demarco

Il crollo del Regno delle Due Sicilie (I. La struttura sociale), 1966 (1a ed. 1960).

Riporto specchietto delle monete e delle misure correnti negli ultimi 40 anni del Regno (p. 1):

« Le monete correnti nel regno di Napoli erano le seguenti: 1 ducato = lire 4.25 (1860) che si divideva in 100 grana; 10 grana = 1 carlino. In Sicilia, i decreti del 30 aprile 1818 e del 6 marzo 1820, prescrissero che a partire dal 1821 i conti fossero tenuti in ducati di regno di 100 baiocchi = lit. 4.25; 1 baiocco = 10 piccoli, 1 piccolo = lit. 0,0042, ma si continuò a contare in onze:
1 onza = 30 tarì = lit. 12,75
1 grano = 6 piccoli
1 tarì = 20 grana
1 piccolo = lit. 0,0035
I pesi e le misure più in uso erano:
il cantaio = 89,09 chili
la caraffa = 0,727 litri
il rotolo = 0,89 chili
la versura = 1,22 ettari
la libbra = 0,321 chili
il moggio = 0,33 ettari
l’oncia = 27 grammi
la salma siciliana = 1,74 ettari
il tomolo (aridi) = 56 litri
il miglio = 1851,85 metri
la botte = 523,49 litri
la canna = 2,10 m. fino al 1840 e
la salma per il frumento = 275 litri in Sicilia
m. 2,64 dal 1840 in poi.

Brevi sull’autore. Demarco è stato uno dei pionieri della disciplina storico-economica in Italia, entrando a pieno titolo in quella prima generazione di storici, spesso di formazione eterogenea (provengono spesso dagli istituti commerciali e hanno una preparazione universitaria non letteraria: ad es. Demarco ha studiato – anche se solo per il primo biennio – alla Bocconi di Milano, fonte: F. Assante, Domenico Demarco, l’uomo, lo storico, in ?. Balletta, Il pensiero e l’opera di Domenico Demarco, Franco Angeli, Milano 2010, pp. 23-37)

L’opera è concepita in più volumi di cui solo il primo (La struttura sociale) sarà portato a termine (il resto degli studi accennati nella Prefazione dello stesso autore, invece, sono probabilmente confluiti in opere autonome: siano d’esempio i lavori sul sistema creditizio e il Banco delle Due Sicilie – bibliografia da recuperare). Nell’impostazione di fondo sembra di trovarsi non certo difronte ad un meridionalista, e nella Prefazione i rapidi accenni sulla spedizione garibaldina sembrano per nulla critici:

«Per conseguenza, l’Autore è convinto, e in questo confortato dai risultati irrefutabili di più recenti ricerche, che il Risorgimento nell’Italia meridionale non fu opera di una minoranza, la quale dovè vincere qui la resistenza dell’aristocrazia e dei contadini, di un movimento di classi medie di provenienza agraria e della borghesia intellettuale, desiderose di accaparrarsi le terre ecclesiastiche e sbarazzarsi dell’assolutismo borbonico. Oltre alla partecipazione delle classi medie agricole vi fu quella della nuova borghesia commerciale e industriale, delle moltitudini rurali, del popolo minuto delle città e dei villaggi, insomma della parte più numerosa della popolazione, per cui può dirsi che nessuno dei ceti sociali rimase assente dinanzi ai problemi che tormentavano la società napoletana. Ai contadini, ali operai, agli artigiani, non manca la chiara consapevolezza della propria inferiorità economica; specialmente quando le leggi eversive sulla feudalità fanno balenare innanzi alla loro mente la speranza di un migliore tenore di vita, essi entrano nella lotta – sia pure, come talora accade, tumultuariamente , – per la conquista della terra, che li trasformerebbe in piccoli proprietari, e li metterebbe in condizione di aspirare alle cariche pubbliche, ad essi precluse.» (p. X)

Solo nell’ultimo capitolo si comprende il senso di quel «moltitudini rurali»: Demarco sottolinea lo scarso consenso e le aspettative disattese che portano «contadini e proprietari, popolo minuto e borghesi, operai e professionisti, per motivi diversi e talora opposti» (p. 183) a costituire un blocco sociale che mina alla base il Regno delle Due Sicilie e riesce a creare una fortissima aspettativa di libertà intorno alla figura di Garibaldi liberatore. Il finale è più che eloquente:

«In questo tramonto rosseggiante di ambizioni, di speranze, di odi, di furore, di desideri, di paure, si chiude il regno dell’ultimo sovrano delle Due Sicilie. Ma “scacciare un re dal trono non è rivoluzione; la rivoluzione si compie quando le istituzioni, gli interessi, su cui quel trono si poggiava, si cangiano”». (p. 184)

Enuclea molto chiaramente le maggiori mancanze della struttura socio-economica del Regno delle Due Sicilie, in tutto il periodo della sua esistenza (Restaurazione-Unità d’Italia).

«Non si può dire che mancassero i capitali; essi, però, di preferenza, venivano investiti in titoli del debito pubblico, o in terreni, che davano un reddito più sicuro, anche se più modesto, in confronto alle speculazioni industriali. I detentori di capitali, in confronto alle speculazioni industriali. I detentori di capitali, preferivano persino tenerli inoperosi, anziché impiegarli in operazioni ritenute arrischiate; in tal modo, la circolazione lentissima rendeva necessaria, per le normali operazioni, una massa ingente di metallo monetato.» (Demarco, p. 86 → «si calcolava che nelle province napoletane circolassero monete per un valore di 80 milioni di ducati, – oltre 340 milioni di lire oro –, una circolazione doppia di quella di tutto il resto d’Italia, il che derivava non da una maggiore intensità di scambi, ma da una minore rapidità di circolazione» e una bassissima finanziarizzazione, aggiungerei io.)

«il debito pubblico, notava un contemporaneo, nel 1833, “questa incolmabile voragine, divoratrice delle ricchezze dell’universale, questo edifizio incantato, questo stabilimento di concentrazione e di ozio” deve cessare di attirare i capitali, di “provocare e sedurre i ricchi ed oziosi cittadini”, e i capitali riprenderanno il loro naturale movimento» (M. De Augustinis, Della condizione economica del Regno di Napoli, Napoli, 1833, p. 143-144, cit. in Demarco, p. 101)

«Le comunicazioni interne furono per molto tempo trascurate, a causa della politica stessa del governo, che si sforzava di contenere le pubbliche spese. Le strade rimasero per molti anni in uno stato deplorevole e ciò, naturalmente, ostacolò il sorgere della grande industria bisognosa di vasti mercati e di una estesa rete di traffici, e rese costosi i trasporti per via di terra. Vi si incominciò a pensare solo durante il regno di Ferdinando II, e in questo periodo notevoli somme furono destinate alle opere pubbliche, e specialmente alla costruzione di strade. Ma alcune di esse, iniziate ai primi del secolo, erano ancora incompiute cinquant’anni dopo. La lentezza si doveva a molte rafioni, non soltanto a mancanza di mezzi finanziari. Spesso i lavori stradali venivano iniziati per lenire la disoccupazione degli abitanti che dopo un’annata di scarso raccolto, erano nell’indigenza; ma venuta meno la causa che aveva spinto il comune ad incominciare l’opera, questa veniva presto abbandonata.» (Demarco, p. 88)

«Il regno delle Due Sicilie era uno dei paesi europei aventi il più basso commercio estero pro capite. Nel 1858, il commercio per aitante del regno, compresa la Sicilia, era di 6,52 ducati. Solo la Russia europea presentava un volume di commercio ancora inferiore, con 5,14 ducati per abitante. Se poi si prescinde dalla Sicilia, e si considerano le sole province continentali del regno, si trova che il commercio per abitante nell’ano 1858 era di soli 5,52 ducati. Questa cifra risulta assai tenue, in confronto ai 40,13 ducati degli Stati Sardi, ai 31,70 della Toscana, e anche i 9,06 dello Stato Pontificio.» (p. 91)

«Il fragore e lo spruzzo di quelle innumerevoli cascate e cascatine; il mormorar delle acque ad ogni istante rotte e controviate, e però fatte querule e spumanti; il cigolio confuso delle macchine e delle ruote; la vista delle adusate acque divenute a mille colori dalla varietà delle tinte; l’incontro di lane e di panni senza fine, di cenci e carte ammonticchiate; l’ingombro di carri e carrette in tutte le vie, per tutte le direzioni; tutto quanto vedi d’intorno ti addita che sei nella valle del lavoro e delle industrie, come già fu dell’ozio, del riposo, degli studii» (molto probabilmente: Giuseppe Maria Galanti, Nuova descrizione storica e geografica delle Sicilie, Napoli, 1787-1789, nessuna indicazione di pagina, cit. in D. Demarco, Il crollo del Regno delle due Sicilie, cit., p. 57-58).

Interessanti sono le esperienze delle Società economiche, sorta di centri di studio, coagulo di studiosi e (probabilmente) interessi economici, che si impegnano molto nella diffusione di conoscenze tecniche e non solo. Ne esisteva una anche in Abruzzo Ulteriore II (odierna prov. de L’Aquila circa, il cui presidente era negli anni Trenta il marchese Luigi Dragonetti4), ma quasi ogni distretto (intendenza?) ne ha una (anche questo è interessante: ricalcano sempre – almeno nei casi che ho incontrato – la divisione amministrativa borbonica post-napoleonidi). Le cita anche Bevilacqua, il quale (vado a memoria) ne ha anche studiate alcune da vicino. (Demarco vi dedica il par. 7 – La nuova borghesia intellettuale, pp. 104-121 – del cap. II).

«Da un canto, nella questione demaniale lo stato borbonico, come si è detto, rinuncia agli atteggiamenti di decisionismo radicale del regime francese e permette se non altro possibilità di manovra a ex-faudatari e amministratori. Inoltre, con il sostegno alle Società economiche lo stato borbonico vuole in qualche modo assicurarsi l’appoggio e il coinvolgimento di un’intelligencija locale in generiche politiche di sviluppo e di trasformazione agraria» (Costanza D’Elia, L’azione per l’agricoltura nel quadro del dirigismo borbonico: le opere pubbliche, in I. Zilli (cur.), Lo Stato e l’economia tra Restaurazione e Rivoluzione. L’Agricoltura (1815-1848), p. 6)

106: lamenti del canonico A. Scardapane, Presidente della Società economica di Abruzzo citra, 30 maggio 1824.

In generale, le manifatture e le iniziative industriali proliferano al momento di passaggio fra i secc. XVIII e XIX. Seta, lana, cotone5 e carta sono i settori più avanzati (non rari i primati: v. la “fabbrica” del francese Lefe(b)vre a Isola del Liri, presso Sora, per diverso tempo l’unica nella penisola ad aver introdotto la macchina senza fine6), seguiti poi dalle concerie, anche qui con risultati notevoli (i guanti bianchi di Napoli erano famosi in tutto il mondo).
Notare: c’è un discreto numero di stranieri (tedeschi, svizzeri, francesi, inglesi) che decide di investire nel Regno, anche spinti dalle protezioni e privative riservate a chiunque abbia la voglia di impiantare manifatture, spesso anche troppo facilmente ( = nel senso che a volte si proteggono anche manifatture inefficienti che, le prime a crollare con il 1861 e il liberismo piemontese).
Notare: dopo un primo momento di decadenza – direi fisiologico – delle manifatture all’indomani del blocco continentale, tornano a fiorire soprattutto negli anni Trenta (Demarco, p. 81). → piccola critica metodologica a Demarco: ogni volta questo tipo di considerazioni si poggiano sulle “testimonianze dei contemporanei”, ovvero gli scritti delle Società economiche sparse nel Regno (di solito riprese da letteratura più recente, di indirizzo “meridionalista” → ricontrollare se G. Arias lo è davvero; controllare infine l’apparato documentario posto in appendice, magari è solo l’uso di non citare esplicitamente i propri risultati).

Interventi borbonici a protezione dell’industria:

C’è da notare, inoltre, che l’incremento demografico permette la presenza di manodopera a basso costo, come accade per l’agricoltura e che nell’industria s’intreccia – aggravando la condizione operaia – con l’introduzione delle macchine: «in un paese privo di organizzazione operaie, il lavoro era abbandonato a se stesso e le basse mercedi lasciavano agl’imprenditori un ulteriore margine di profitto» (p. 83).

«Il povero minatore – scriveva l’ufficiale, da Pazzano, in data 13 giugno 1862 – che entra nella sotterranea galleria prima che sorga il sole e ne esce quando è già tramontato, non gode altra luce che quella del suo lucignolo, al contrario degli altri operai esso non è mai lieto, né v’ha dubbio che tu lo intenda intuonare (sic!) la canzone che ad ogni altro lavoratore addolcisce il travaglio. L’aria chiusa e pregna di gas nocivi che egli respira lo rende pallido e malaticcio, ed ha perciò vita molto breve. Con tutto ciò egli non guadagna che 25 soldi al giorno. Quello poi che mi commosse maggiormente fu il vedere la durezza nel travaglio a cui soggiacciono i garzoni minatori. Questi sono fanciulli di 12 o 14 anni che debbono portare fuori il minerale; un cesto di vimini pende dalle loro spalle; dentro al quale trasportano da 40 a 50 kg, di ferro. Questo peso enorme per un fanciullo di quella età li fa camminare curvi e quasi carponi, e ferisce e scortica loro tutta la schiena. Uno di questi mi fermò nel mezzo di una galleria ed ansante per la fatica mi disse: – “Guardate Capitano le mie spalle”; esse erano coperte di piaghe, alcune delle quali recenti gettavano sangue. Il fanciullo proseguì: – “ I minatori pretendono che si facciano 25 viaggi, non è possibile resistere a tanta fatica, e noi ci sentiamo morire, abbiate pietà di noi! ”» (Dalla Calabria nel 1862. Lettere del capo. Luigi Maccaferri, estr. da «Brutium», n. 2/1934, pp. 12-13, cit. in. Demarco, p. 137)

3 Cui si aggiungono i divieti d’esportazione negli anni di scarso raccolto → politica annonaria.

4 Viene notato in Demarco, p. 108 come un’eccezione: non si preoccupa tanto del libero scambio, quanto della distribuzione delle ricchezze. Potrebbe essere interessante approfondire. Riportato in Demarco: «La felicità di uno stato, egli affermava, “dipende meno dalla quantità de’ prodotti, di quello che dal loro saggio ripartimento”. La libera concorrenza fu per il volgo degli economisti il non plus ultra della sapienza umana applicata all’arte di governare, Ma quali i risultati? Cinque lustri di esperienza hanno rovesciato le fortune private, resi abituali i fallimenti, riempito le città industriose di “fame” e “sedizione” “eccitato cruente rivalità di nazioni, soprusi e violazioni dei diritti più santi, tramutato il consorzio umano in tanti campi nemici, incoraggiato l’accrescimento delle popolazioni, solo per preparare un più sontuosa ecatombe alla morte… Ecco un saggio de’ beni derivati all’umanità dalla libera concorrenza, ch’è il più sicuro degli espedienti per nudrire (sic!) l’abitudine degli odi, principalissima cagione dell’immoralità di un popolo…”. Per contro sostituite al principio della libera concorrenza “lo spirito d’associazione”, e vedrete di che cosa sia capace “l’industria in fatto di moralità e di concordia», L. Dragonetti, Dell’industria considerata nelle sue attinenze con la pubblica amministrazione, in «Il Progresso delle scienze, lettere e arti», a. I, 1832, vol. II, p. 123, cit. in Demarco, p. 108. Interessante anche la continuazione nelle pp. ss.

5 Queste ultime due, come anche altre manifatture, rivitalizzate e favorite nel periodo napoleonico proprio grazie al blocco continentale, quindi alla liberazione del «paese dal pericolo della concorrenza commerciale inglese», D. Demarco, Il crollo del Regno delle Due Sicilie, cit., p. 80.

6 Demarco, p. 68-69; contava oltre 2000 operai, cfr. Bevilacqua, p. 27.

Piero Bevilacqua

Breve storia dell’Italia meridionale: dall’Ottocento a oggi, Donzelli, Roma 1993.

«La rivoluzione agricola fu dunque anche una profonda ristrutturazione della società rurale, accompagnandosi a due serie di trasformazioni che riguardavano le tecniche e le piante coltivate: da un lato migliori strumenti aratori, più efficaci sistemi di semina, acquisto sul mercato di sementi selezionate, dall’altro l’inserimento nei sistemi di rotazione di nuove piante ad alta produttività (la patata e, nell’area mediterranea, il mais). Per molti aspetti si trattò di una rivoluzione ininterrotta che si protrasse su scala mondiale per il XIX secolo e anche dopo, venendosi a intrecciare con le possibilità tecnologiche offerte dall’industrializzazione.» (S. Guarracino, Rivoluzione agricola, in Dizionario di storia moderna e contemporanea, in pbmstoria.it)

«In realtà la protezione borbonica, tanto deprecata dagli storici di ispirazione liberistica, mostra sostanzialmente una cosa sola: allorché, pur fra tante difficoltà, incoerenze e debolezze, venne condotta una politica industriale – entro una congiuntura internazionale propizia – essa diede frutti non occasionali né effimeri anche nel Mezzogiorno d’Italia. Alla luce di quanto la storia e le scienze sociali sono oggi in grado di mostrare, l’esperienza del Mezzogiorno conferma che l’industrializzazione solo in parte è un fenomeno spontaneo di pure forze economiche: in larga misura essa è o può essere il risultato di organizzazione e di strategie consapevoli tanto dei privati che delle istituzioni statali, soprattutto in realtà periferiche rispetto ai centri più avanzati dello sviluppo.» (p. 30-31)

A proposito del discorso liberismo (anni ’60) e protezionismo (1887…), alcuni spunti parzialmente sparsi:

«C’è, infine, un punto della legislazione liberale che merita una considerazione speciale. I governi borbonici, fra gli anni trenta e cinquanta, avevano elaborato un complesso di leggi e messo in atto una politica di grande coraggio e modernità, che tendeva a coinvolgere strettamente i proprietari fondiari nell’opera di realizzazione e gestione della bonifica. Questi ultimi erano chiamati attivamente a collaborare, ciascuno seconda la ricchezza fondiaria posseduta, al risanamento generale del territorio, insieme alla valorizzazione agraria dei propri fondi. L’interesse privato era chiamato così a svolgere una parte importante a favore dell’interesse generale, soprattutto in un ambiente in cui la malaria costituiva una minaccia alla salute di tutti. Attività produttiva e accumulazione privata della ricchezza non potevano essere considerati come fatti economici solitari e isolati, ma come forme di sfruttamento del territorio in quanto bene comune, che perciò richiedeva un impegno collettivo di gestione» (p. 57-58).

Vanno notati due tentativi di inversione della tendenza generale che si può rimproverare alla classe politica risorgimentale all’indomani dell’unità:

  1. la cesura rappresentata dalla legge del 1887 (dazi e protezioni doganali) → Romeo (Capitalismo e Risorgimento) ne metteva in luce alcuni punti critici, che chiama direttamente “errori tecnici” o cose del genere (ritrovare)
  2. gli interventi speciali dei primi del Novecento: una sorta di legislazione speciale consistente in agevolazioni e sgravi fiscali che parte già nel 1901
    1. 7 luglio: «si assegnava al Banco di Napoli, tramite la propria Cassa di risparmio, il compito di provvedere al credito agricolo nelle province meridionali», p. 88);
    2. prosegue con il 1904 («Provvedimenti speciali per Napoli» «venivano adottati sgravi fiscali sui consumi popolari, si stabilì un’esenzione decennale dei dazi doganali per tutti i materiali da costruzione, per le macchine e per tutte le strutture utili al primo impianto di industrie nella città di Napoli. I “Provvedimenti” autorizzavano altresì il governo a riservare per un periodo di dieci anni, agli stabilimenti meccanici esistenti nel comune, la costruzione di materiale mobile ferroviario per una quantità non minore di un ottavo del materiale che sarebbe stato ordinato per conto dello stato» (p. 88) → sarebbe estremamente interessante mettere a confronto questa esperienza sia con le “privative” borboniche, sia con l’intervento speciale repubblicano dagli anni Cinquanta in poi;
    3. poi ancora nel 1904 (simili provvedimenti in Basilicata), 1905 (Calabria) e 1906 (tutte le province meridionali).

«È da precisare, tuttavia, che tali misure di intervento speciale non ebbero in seguito la stessa efficacia dei provvedimenti adottati per Napoli. Iniziative legislative così larghe e generalizzate finirono ben presto per non trovare un adeguato sostegno finanziario da parte dello stato, così che le leggi, dopo le prime realizzazioni (costruzioni di strade, acquedotti ecc.) finivano ben presto col rimanere sulla carta.» (p. 89)

Ancora sugli interventi dello Stato. Da notare il par. 6. (La conquista delle pianure e l’involuzione demografica) del cap. III (Dalla crisi agraria al fascismo), ma soprattutto a fondo libro la nota bibliografica, per l’attenzione che si dà al processo della bonifica come piano d’intervento organico e totale. «La bonifica dunque come opera di “integrale riforma” del territorio, destinata non a mettere semplicemente in piedi una qualsiasi opera pubblica, ma di trasformare radicalmente un intero ambiente» (p. 91)

Poi ci sarebbe da aprire tutto il discorso degli anni Cinquanta, dalla riforma agraria alla Cassa per il Mezzogiorno, ma si andrebbe paurosamente “fuori tema”.

Alcuni dati sparsi:

Considerazioni (anti)meridionaliste:
È necessario, secondo Bevilacqua, evitare di vedere alla storia del Mezzogiorno con la lente dell’arretratezza o, peggio ancora, dell’immobilità socio-economica. È il vizio di un dibattito storiografico dominato dal problema prima politico e poi storico della «questione meridionale», da cui bisogna parzialmente distaccarsi per vedere in maniera nuova, quindi parzialmente diversa, la storia del Meridione.

«Sarebbe sicuramente ingiusto, oltre che storicamente infondato, sostenere – come pure fu sostenuto da alcuni meridionalisti, nel fuoco delle polemiche dei primi decenni del Novecento, ma anche in tempi più recenti – che il Nord si industrializzò a spese del Sud. Né è tanto meno sostenibile che allora si sia realizzata nei confronti delle regioni meridionali una sorta di politica coloniale, in base alla quale il Sud, lasciato nelle sue strutture agricole, abbia svolto il ruolo di mercato dei prodotti industriali del Nord e di fornitore di materie prime. Le cose sono alquanto più complicate. Intanto, occorre dire che le regioni settentrionali (peraltro una porzione limitata di esse) giunsero all’industrializzazione per merito proprio e per una serie di ragioni storiche, geografiche e anche politiche a cui abbiamo anche noi in precedenza accennato. L’«arretratezza» del Sud non fu una condizione dell’industrializzazione del Nord. Certo, come del resto in parte si è visto, le economie industriali si avvantaggiarono non poco del contributo indiretto delle popolazioni meridionali: in primo luogo attraverso le rimesse degli emigrati (senza tuttavia dimenticare che anche le regioni del Nord d’Italia diedero un contributo rilevante all’esodo); in secondo luogo per la possibilità di smerciare i propri prodotti nelle regioni del Mezzogiorno senza dover temere agguerrite concorrenze interne. Ma tali vantaggi, benché importanti, se rappresentarono degli elementi contemporanei di freno e di svantaggio per la crescita dell’economia meridionale – perché la forzarono verso investimenti di carattere agricolo e ne scoraggiarono le iniziative di carattere manifatturiero – in nessun caso costituirono la condizione dello sviluppo industriale del Nord» (p. 67)

Altri spunti interessanti:

«Debolmente toccate dal processo di industrializzazione per poli furono invece, in quella fase, tre regioni del Mezzogiorno continentale: l’Abruzzo e il Molise, la Basilicata e la Calabria. Sulla carta geografica dell’industrializzazione pianificata una nuova gerarchia regionale e nuove marginaità all’interno dello stesso Mezzogiorno». (p. 104)

60-62: emigrazione: suo peso nei “ritorni” di denari dall’estero.

Antonio Gramsci

Quaderni del carcere (Quaderno 19 (X)), Einaudi, Torino 2007, pp. 1157-2078.

individua nella mancanza di una vera e propria epoca del mercantilismo la maggiore facilità con cui si fece l’unificazione: «il mercantilismo avrebbe, se organicamente sviluppata, rese ancora più profonde e forse definitive, le divisioni in Stati regionali» (p. 1961). Per Gramsci, il mercantilismo va inquadrato in una cornice complementare alla formazione delle monarchie nazionali, come assi di cristallizzazione di interessi vari (pp. 1960-1961). Questo per dire che in Italia non c’è stato un vero e proprio mercantilismo, altrimenti, non ci sarebbe stata l’Unità. Ricorda: nella concezione del materialismo storico i fatti sono concatenati da «nessi di necessità storica» (p. 1961).

D. Mack Smith-F. Milone

D. Mck Smith, The peasants’ revolt of Sicily in 1860
F. Milone, Le industrie del Mezzogiorno all’unificazione dell’Italia, in A.A. V.V., Studi in onore di Gino Luzzatto, vol III, Giuffré, Milano 1950.
Qui si trova l’indice online.

in A.A. V.V., Studi in onore di Gino Luzzatto, vol III, Giuffré, Milano 1950.

Il saggio è raccolto in un volume del 1950 in onore del grande studioso italiano di storia economia. Ci sono contributi che spaziano dalla storia politica all’economica, anche con toni e accenti molto differenziati.

«Notwithstanding a notable increase in Sicilian trade in the ten years before 1860, agricolture remained barely out of its nomad, «extensive» stage: indeed it was probably worse than it had been in Arab days, without irrigation or carriage-ways, and with a hand-kissing population of serfs.» (p. 201)

In relazione alla tesi di Gramsci: «Today we may know that the fractional division of latifondi into piccola proprietà was never by itself the solution to cultivation problems» (p. 202)

Ancora sulle classi sociali:

«It is broadly true that this year is the most important moment in the change over from government by church, army and aristocracy to government by the professional, mercantile and landowning gentry. But the old Sicilian aristocrats had been degenerating, even since before the time of king Joseph Bonaparte at Naples, into a noblesse titrèe worse instructed than their inferiors. They were reluctant themselves to enter commerce, the chirch or the profession, and the Bourbons would not readily admit them to army; so they were usually poor, idle, without either political knowledge or political courage, and were in revolutions at the mercy of demagogues. The new succession laws and the abolition of entails between 1812 and 1819 had permitted the fragmentation of property, and the post-war depression after the artificial stimulus of the English occupation had hit the big landed families. Their estates were now smaller and often mortgaged, their political influence was largely gone.» (p. 202)

Risorgimento della “classe media”:

«It is today a commonplace that the Risorgimento was a middle class movement, against wich the reaction was to be composed of peasants led by the aristocracy. The events of 1860 in Sicily will substantiate this thesis. But of all classes the borghesi most defy generalization. There was for instance one big distinction between the landowning and non-landowning middle classes. The former was composed of Goodwin’s 20,000 families, and in many or most cases opposed the revolution until Garibalsi became the best available defence of law and order. But the professional classes of the town stood with the more educated and travelled aristocrats for Italia Unita. […] In Garibaldi’s Mille there were n peasants or aristocrats. Among the leading Sicilian revolutionaries there were the physician La Loggia, Monsignor Ugdulena he eminent canon lawyer, Amari the great medieval historian, La Lumia the archivist and litterato, Errante the professor of litterature, Lanza the monk, Orsini the professional soldier, Crispi the lawyer.»

Abbandonato. La parte sull’industria è dichiaratamente poco approfondita. Quella sulla rivolte contadine siciliane mi porta troppo fuori strada.

Vera Zamagni

Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia (1861-1990), il Mulino, Bologna 1990.

Utile soprattutto per l’apparato statistico.

Prendo in considerazione solo la lunga introduzione. I richiami bibliografici sono utili e richiamano non solo i dibattiti più sentiti intorno ad alcune questioni problematiche, ma anche numerosi saggi dove poter trovare dati e statistiche. Per molti aspetti richiama testi che ho già preso in considerazione.
Notevole l’incipit:

«Non si può affermare che esistano paesi con vocazione allo sviluppo e altri destinati alla stagnazione, ma ogni popolazione ha sempre cercato di migliorare le proprie condizioni, salvo venirne impedita da eventi naturali, da scontri politico-militari o dal cristallizzarsi di istituzioni e centri di potere nocivi per la crescita, come è stato recentemente riaffermato da Jones.» (p.15)

Alberto De Bernardi-Luigi Ganapini

Storia dell’Italia unita, Garzanti, Milano 2010.

Prendo in considerazione solo la Parte Terza (a cura di A. De Bernardi): La crescita economica e i modelli di sviluppo; cap. 8 Una periferia europea in movimento.
Utile soprattutto come sintesi e visione d’insieme.

Alcuni appunti sparsi:

Marco Meriggi

Gli Stati italiani prima dell’Unità. Una storia istituzionale, Bologna 2002

(Si rivela interessante anche dal mio punto di vista… lo studio sul serio.)

Domanda iniziale (quasi retorica): si può scorgere una linea di continuità forte che unisce il periodo rivoluzionario (1796-99) nella penisola alla Restaurazione e, infine, al processo di unificazione della penisola?

Suggestioni:

«Centralità, luminosità, efficienza dell’amministrazione: obiettivi apparentemente neutri e tutti tecnici, di per sé poco idonei a suscitare passioni, slanci ideali, ancoramenti ideologici; eppure è nella costellazione da questi delineata che gli informatori italiani di Metternich parevano riconoscere, agli esordi della restaurazione, il riverbero più intenso e durevole delle aspirazioni rivoluzionarie che avevano coltivato, in giovane età, tra fine Settecento e i primi anni del secolo seguente ...» (p. 14)

Interessante il riferimento al «partito moderato». Questo è fatto dai «più aperti e disinibiti» elementi della vecchia aristocrazia, i quali si uniscono ai «patrioti» rivoluzionari nella lotta al dispotismo, perché riconoscono nei governi di fine Settecento (in rapida involuzione dopo una fase di monarchia illuminata in tutta la penisola, tranne che nella Lombardia e la Toscana asburgiche) un ostacolo alla loro libertà cetuale, ridotta a mera forma, senza alcuna autonomia sostanziale. Questi elementi, di fronte alle costituzioni “rivoluzionarie” (specie quella del 1795, che ristabilisce il fulcro sui proprietari, dopo la fase di terrore roberspierriano) nutrono una certa simpatia: cosa c’è da temere del nuovo ordine repubblicano – afferma Francesco Melzi d’Eril, patrizio milanese, « quando la sola reale qualità vostra, quella di proprietarij, viene ad essevi garantita siccome lo scopo principale del patto sociale […]? » (p. 25-26).

A Napoli: raro caso di partecipazione di aristocratici, non come singoli, alle posizione democratiche, a sfatare il binomio aristocrazia-moderatismo; ma questa è solo quella parte di aristocrazia “marginale” nel contesto del regno, ovvero l’aristocrazia cittadina della sola Napoli.

Quindi: valore dell’amministrazione (monarchia amministrativa → forza del diritto dell’esecutivo) come terreno di convergenza fra: ex-rivoluzionari “giacobini”, che si trasformano – per paura di un reazione meramente sanfedista – in bonapartisti; dunque nuovi protagonisti “sociali” (carriera militare, ma anche civile: dotti, borghesia, funzionari statali) nel decennio francese e, infine, élite illuminata austriaca che conduce una Restaurazione sui generis e cioè che non vuole semplicemente portare indietro le lancette dell’orologio, ma conservare il più possibile quanto di buono l’amministrazione napoleonica aveva portato a termine: eversione della feudalità, uniformazione e razionalizzazione del territorio, diritto dell’esecutivo e uniformità dei codici, rappresentanza sociale e controllo dall’alto, quindi senza nulla concedere ai nostalgici dell’antico regime, se non alcune formalità che non ne soddisfacessero però le aspirazioni profonde.

Nella Sicilia che tra il 1806 e il 1815 aveva offerto riparo ai Borboni fuggiti da Napoli, per esempio, temprandosi nel prolungato conflitto dei baroni, s’era formato un «partito», guidato da Luigi de’ Medici e Donato Tommasi, che osservava con vigile attenzione quanto Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat stavano realizzando nella parte continentale del regno, e che tendeva a leggere in esso sostanzialmente l’efficace inveramento dei vani sforzi tardo-settecenteschi del governo regio di sottrarsi alle vischiosità della giurisdizione cetuale e togata.
Uomini come Medici e Tommasi, formatisi alla scuola dell’illuminismo napoletano, già nel 1813, quando la caduta del regno murattiano era lontana dal poter essere considerata imminente, premevano sul re affinché l’eventuale riacquisizione da parte del Borbone del Mezzogiorno continentale non si traducesse in un ritorno allo statu quo ante al 1806. Al contrario: «Ciò che è stato stabilito, ed a cui si sono avvezzati gli animi per otto anni, deve lasciarsi […] d’altronde moltissime sono le istituzioni utili. Talune disposte e preparate prima di partire da S.M.» (p. 122, la cit. è spiegata in nota (9): Così Donato Tommasi, citato in R. Feola, Dall’illuminismo alla restaurazione. Donato Tommasi e la legislazione delle Sicilie, Napoli, Jovene, 1977, p. 178.)

Luigi De Matteo

Stato e industria nel Mezzogiorno, in I. Zilli (cur.), Lo Stato e l’economia tra Restaurazione e rivoluzione: II. l’industria, la finanza e i servizi (1815-1848), op. cit., pp. 9-39.

tieni a mente per la questione della divisione analitica: industria protetta / assistita.