Il primo passo consiste nella lettura del “Vocabolario della modernità” di R. Koselleck, dove si ragiona attorno al termine “crisi” attraverso le categorie proprie della storia concettuale/storia delle idee.
Vedere la crisi – come concetto storico, politico, paradigmatico, non già come evento sentimentale o morale – alla luce del suo significato originario (separare, dividere, scegliere), per comprendere quali siano da un lato le modalità di riconoscimento di una fase di crisi, e dall’altro i mezzi per oltrepassarla. L’accento, oltre che sulla tematica del tempo, è posto su quello della decisione (di qui l’interesse per Schmitt, che verrà analizzato più avanti). Tramite la decisione si può superare la crisi e ricreare le condizioni per una nuova “normalità” (non più identificabile con quella precedente, proprio in quanto contaminata dallo scatenamento della crisi).
Dopo aver riassunto i punti relativi a Koselleck, ci si chiede se questo schema – valido per la storia concettuale – possa essere utilizzato anche in relazione alla storia della scienza e all’alternarsi dei cosiddetti paradigmi scientifici. Dunque si indagano le posizioni di Kuhn in merito: analogie e differenze. Un’attenzione particolare al tema dell’ “oggettività”, che appare problematico – ma forse se ne dovrà dimostrare l’ “inconsistenza” – sia nelle scienze umane che in quelle “dure”. Capire come sviscerare questo aspetto.
Mi sono concentrato su alcuni capitoli del lavoro di Kuhn,in particolare: Prefazione/Introduzione; capp. VI-VII-VIII. Il fil rouge, nella mia lettura, non è tanto il problema della “rivoluzione” (che è ciò a cui guarda con maggiore interesse Kuhn), ma piuttosto la questione della crisi: come emerge, come si elabora, come (eventualmente) si risolve. Ovvio che, trattandosi di teorie scientifiche, il taglio analitico sia diverso rispetto, poniamo, alla storia concettuale di Koselleck. Tuttavia Kuhn sviscera il problema partendo dal riconoscimento dell’anomalia nella ricerca scientifica; dal grado di sconvoglimento che tale anomalia produce nella scienza normale; dalle reazioni dello scienziato, che può cogliere l’anomalia come occasione di approfondimento della ricerca o come ostacolo indesiderato. In entrambi i casi, però, la scienza normale entra in crisi. Kuhn poi fa alcuni esempi (Copernico, la scoperta dell’ossigeno, la crisi della fisica nel XX sec.) che illustrano meglio la sua teoria. Molto dipende secondo lui dal grado di riconoscimento della “crisi in atto” da parte dello scienziato: non sempre il riconoscimento avviene. Alla luce del fallimento delle teorie consolidate, non si cambiano subito le teorie, ma prima gli strumenti con i quali sondare nuovi campi. Eventualmente solo in un secondo momento la teoria – il paradigma – potrà cambiare del tutto, a allora si avrà la rivoluzione scientifica. Ma tutto passa, ripete Kuhn, dal riconoscimento della crisi. Anche nella crisi scientifica si pone il tema della decisione: scegliere di proseguire una via di ricerca ignota, oppure rifiutarsi di prendere in considerazione l’emergere di un’anomalia nella scienza normale, è anche frutto di opzioni individuali, che tuttavia non possono non risentire del comportamento della comunità scientifica in generale. Il modo in cui poi la crisi viene risolta, quando si matura una percezione più chiara circa la natura e la struttura di un nuovo paradigma, è un processo spesso oscuro (chiarirò meglio). Anche in questo caso, però, non ci si lascia guidare dalla semplice osservazione dei dati empirici scaturiti dalla ricerca; si impongono fattori, ancora una volta, di decisione, di scelta, dunque di libertà.
Alla luce di tutto ciò, cercherò di mettere in relazione questo discorso con la visione schmittiana della decisione e dell’eccezione. Penso che gli ultimi accenni saranno riservati, come sbocco concettuale del discorso, al tema della libertà (riferimento a etienne de la Boétie, “Discorso sulla servitù volontaria”).
Il discorso schmittiano suo Tre tipi di pensiero giuridico (fondato sulla norma, sull’ordinamento o sulla decisione) mi pare un esempio significativo per comprendere non solo come agisca, nel campo del diritto (esistono certo altri campi, ma l’esposizione di Schmitt fissa i termini della questione in maniera credo decisiva), il dispositivo della decisione, ma come la scelta di un tipo di pensiero giuridico rispetto ad altri – una scelta che misura anche la “crisi” nel quale sono piombate le strutture del diritto nella prima parte del Novecento – non poggi su nessuna “oggettività”, bensì sul “vuoto normativo”. A partire da questo vuoto nasce la scelta di uno di questi tre tipi da parte del giurista, che, sebbene possa giustifgiustificare ed argomentare tale scelta, compie di fatto un’azione irridicibile e “parziale”. Anche nel campo della legge, dove non l’interpretazione astratta è una pura invenzione di certo positivismo giuridico, si impone una crisi di indirizzi, di valori, di orientamenti, che può essere sciolta soltanto dalla decisione, che a suo volta produce una nuova “Norma” sulla quale si conforma la nuova Legge. Infine, tralasciando però il discorso su La Boétie, che mi è parso inopportuno da inserire nel testo finale, ho osservato come l’esercizio della decisione ed il riconoscimento dell’assenza di oggettività nel campo dell’agire umano (ricordo come questi due concetti rappresentino gli assi concettuali intorno a cui è nato l’articolo) possa avvenire soprattutto (non soltanto, ma soprattutto) in una condizione di libertà formale e materiale, nella quale la crisi – intesa in fin dei conti come il riconoscimento dell’inesistenza di “fondazioni legittimanti oggettive” – si manifesta in tutta la sua lacerante e disarmonica prorompenza.