I. Origini e Storia del popolo rom

Le origini del popolo rom sono state indagate dalla fine del XVIII secolo in poi, dando vita ad una branca di studi chiamata Romanìlogia (romanì= agg. femm.).
Studi condotti da linguisti, genetisti e antropologi collocano l’origine dell’etnia romanès in un territorio compreso a Nord-Ovest dell’India, tra il Sindh (da cui probabilmente i Sinti), il Punjab, il Rajasthan, l’Uttar Pradesh, l’Afghanistan meridionale e l’attuale Pakistan.

La comunità romanès si compone di cinque gruppi etno-culturali principali, suddivisi a loro volta in in un’infinità di sottogruppi: i Rom, i Sinti, i Kale (o Calè), i Manouches e i Romanichals. Il termine rom deriva probabilmente da Dom (“uomo”), contrazione del termine sanscrito Domba, pronunciato con la “D” retroflessa. In lingua romanì, “rom” significa “uomo”, “marito”, “maschio”. Esistono per altro testimonianze di molti gruppi etnici denominati Dom in tutto il Medio Oriente, formatisi in epoche diverse.
Altra possibile origine del termine rom è il termine indo-ariano rāma che significa “marito”.
L’eteronimo dispregiativo “zingaro” deriva da una setta manichea, quella degli Athingani o Atsingani, letteralmente “coloro che non vogliono essere toccati”. Questo appellativo ha provocato un duplice danno alla comunità romanès, anzitutto perché vennero bollati come degli eretici, in un epoca in cui qualunque diversità, in particolare quella religiosa era guardata con sospetto se non con odio. In secondo luogo, questa definizione f u molto fuorviante per gli antropologi, portandoli a ritenere che le comunità romanès derivassero dalla casta più povera dell’India, ossia gli “intoccabili”.
Ciò è scarsamente probabile: guardando alcune loro tradizioni, le arti per cui essi si distinsero una volta arrivati in Occidente (musica, danza, artigianato), per la loro moda (tessuti sgargianti, gioielli vistosi) e la difficoltà con cui accettavano di svolgere i lavori più umili è piuttosto verosimile che essi appartenessero a qualche casta medio-alta. È comunque verosimile che una popolazione originaria dell’India rifiutasse i contatti fisici: non bisogna dimenticare infatti, che nella società indiana tutti coloro che appartenevano a caste diverse non potevano toccarsi.

La prima diaspora risale probabilmente attorno al XI secolo, all’epoca delle conquiste di Mahmud di Ghazni, che comportarono anni e anni di guerre fino alle conquiste dei turchi ottomani. Intere comunità Dom si spostarono verso la Persia, e da lì successivamente, alcuni verso l’attuale Georgia, altri verso l’Egitto (da qui, forse, il mito dei rom egiziani, “aegyptianus” da cui “gypsy”), altri ancora verso l’impero Bizantino.

Quando arrivarono in Occidente, fra il XIII e il XIV secolo destarono molta curiosità per il loro modo di vestire, la pelle scura, la lingua incomprensibile e le tradizioni sconosciute. Con i Gagi (i non-rom) i capi-famiglia iniziarono a spacciarsi per re, principi, conti, o marchesi del “Piccolo Egitto”. In questo modo, riuscivano spesso ad ottenere lettere di protezione e salvacondotti dai sovrani locali. La loro fortuna, in particolare, fu quella d’essere scambiati in molte occasioni per poveri pellegrini, o penitenti diretti in qualche luogo di preghiera e pellegrinaggio.

Ben presto però (XV-XVII sec), il loro “sottrarsi al controllo sociale e agli schemi precostituiti del tempo” (sic) iniziò a destare sospetti. La loro diversità li faceva apparire “pericolosi e privi di moralità”. Da quel momento in poi in Europa furono adottate nei loro confronti misure repressive.

Furono accusati di: brigantaggio, stregoneria, essere spie per conto dei turchi, agitatori, propagatori di pestilenze, malfattori, sfaccendati e persino cannibali.
Inoltre, tra i negotia illicita del tempo compariva anche l’attività del fabbro. La forgia dei metalli, in cui le comunità romanès erano particolarmente abili ed esperte, era avvolta da un’aura di mistero e vista con sospetto in quanto si riteneva fosse legata alla magia.
La Chiesa, poi, considerava le comunità romanès un forte pericolo per la cristianità, per via dell’arte della divinazione, della chiromanzia e delle danze (di origine orientale) giudicate impudiche e lascive.

Non andò meglio durante il Rinascimento, anzi, in questo periodo la repressione si fece più mirata e sistematica, fra torture di ogni genere, condanne a morte e deportazioni nelle colonie d’Africa e America (in seguito anche Oceania).
Si diffusero bandi ed editti antiromanès, alcuni dei quali permettevano ai cittadini di “abbattere o liquidare personalmente con bastonate o con armi da fuoco” gli zingari o heidens (pagani) (Provvedimento emanato a Berna nel 1646). Nei Paesi Bassi si iniziarono ad elargire premi per chi catturasse o uccidesse gli heidens. Il Vescovo di Oviedo disse che la scomparsa dei Gitanos era “un servizio da rendere a Dio”. In Germania gli uomini furono giustiziati e a donne e bambini fu tagliato un orecchio in segno di riconoscimento.

Nell’età dei lumi si percorse la via dell’inclusione coatta: intere famiglie venivano spostate da una regione all’altra e assegnate a fare lavori che non avevano mai fatto (per lo più in campagna). Maria Teresa d’Austria proibì l’uso della lingua romanès, le tradizioni, l’abbigliamento. Favorì, attraverso compensi, i matrimoni misti. Vennero confinati in villaggi-ghetto distanti dai centri abitati.
In Spagna, come in Austria, i bambini vennero sottratti alle loro famiglie per essere educati in apposite strutture, simili più ad orfanotrofi che a collegi.

Anche in Italia si assiste ad una vera e propria persecuzione, in particolare nello Stato Pontificio, nella Repubblica di Venezia, nel Regno di Napoli e nel Ducato di Milano, dove una grida del 1693 autorizzava ogni cittadino: “d’ammazzarli impune e levar loro ogni sorta di robbe, bestiami e denari che gli trovasse”.

Porrajmos

Il termine Porrajmos o Porajmos significa “divoramento” e viene usato per ricordare almeno 500 mila Rom e Sinti (ma alcune stime parlano addirittura di un milione e mezzo) sterminati dall’odio nazifascista. In pratica, è l’equivalente della Shoah per il popolo ebraico.
Molte comunità romanès, in realtà, al termine Porrajmos, che in molti dialetti romanì ha una connotazione sessuale, preferiscono usare il termine Samudaripen o Samudaripé (“uccisione totale”) o Baro Romanò Meripen (“la grande morte”).

In epoca positivista si assistette allo sviluppo di studi antropologici che predicavano la predisposizione razziale alla delinquenza: da Cesare Lombroso a J. A. de Gonineau i presupposti ideologici e pseudoscientifici per la teoria dell’ineguaglianza delle razze umane erano pienamente formati.

Dalla fine del XIX secolo, si inizia a parlare di “problema zingari” e di “piaga zingara”.
In Germania furono predisposti degli uffici di Polizia appositamente dedicati al controllo delle comunità romanès.
Nel 1912 il Governo francese approvò una legge che obbligava tutti i membri delle famiglie romanès a detenere di un documento antropometrico, misura alla quale non era sottoposta nessun’altra minoranza etnica in Francia.
Nel 1926 in Svizzera, una società filantropica chiamata Pro Juventute istituì “un’opera di soccorso per i bambini della strada maestra”. In realtà l’amministratore di tale organizzazione si rivelò essere un pedofilo, il quale fece sottrarre con la forza i piccoli alle loro famiglie, facendo poi credere loro di essere stati abbandonati o di essere rimasti orfani. Circa 500 bambini finirono in istituti psichiatrici e orfanotrofi, le bambine vennero sterilizzate.
Fra il 1934 e il 1935 iniziarono le sterilizzazioni obbligatorie delle donne Rom e Sinte anche in Norvegia, Danimarca e Finlandia.

Nella Germania nazista ai Rom e ai Sinti vennero applicate le stesse leggi destinate agli ebrei. Essi dovevano appuntare sui vestiti un triangolo nero, simbolo degli asociali, erano banditi dai luoghi pubblici, subivano processi sommari per accuse assurde e infamanti (ad esempio, quella di cannibalismo), furono privati dei diritti civili, dichiarati “cittadini di seconda classe”.
Il primo campo nomadi ufficiale della storia si ebbe nel 1935 a Colonia. Il Zigeuner-lager era un ghetto, sorvegliato dalla polizia, che fungeva anche da luogo di pubblico disprezzo per le famiglie costrette a viverci.
A partire dalla metà degli anni ‘30, i Rom e i Sinti, come gli ebrei, furono inviati nei campi di lavoro. Nel 1937 Himmler ne ordinò la carcerazione preventiva.
Dal 1938 in poi il Governo nazista avviò la “pulizia etnica” anche nei confronti delle comunità romanès. I bambini erano spesso strappati alle famiglie e usati per condurre esperimenti pseudo-scientifici sul loro corredo genetico. In realtà venivano torturati e uccisi barbaramente. I medici nazisti consideravano i Rom e i Sinti “materiale umano di grande interesse”. Gli esperimenti venivano condotti spesso d’intesa con le grandi case farmaceutiche, quali la Pharma e la Bayer (che pagò 150 cavie umane al prezzo di 170 franchi cadauna).
Durante il regime nazista ci furono ondate di sterilizzazioni di massa nei confronti delle donne romanì.
Sempre nel 1938 l’Austria approvò una legge che vietava i matrimoni misti e si procedette ad un censimento delle comunità romanès.
Nel 1940 in Italia il Governo fascista diramò l’ordine di internamento dei rom e sinti stranieri presenti sul territorio italiano. La circolare del 27 aprile 1941 estese l’ordine di internamento anche agli zingari italiani. Si procedette, in pratica come fu per gli ebrei, al rastrellamento non solo di quelle persone che vivevano in povertà ai margini della società, ma anche di quelle molte famiglie rom e sinte italiane perfettamente integrate da generazioni nel tessuto socio-culturale.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, alcuni gruppi di Rom e Sinti riuscirono comunque a scappare dai luoghi di prigionia, sfruttando ogni occasione (ad esempio, la storica fuga di 118 prigionieri, compresi i bambini, dal campo di Tossicia, in Abruzzo).
Molti furono anche i Rom e i Sinti italiani che militarono nelle brigate partigiane. La maggior parte di loro perì.

Alla fine della guerra, nessun rappresentante delle comunità Rom e Sinte fu invitato al processo di Norimberga. Le autorità non vollero riconoscere il genocidio del popolo romanès, perché ciò avrebbe significato risarcirli non solo economicamente, ma anche e soprattutto, culturalmente e socialmente, riconoscendo i loro diritti e promuovendo le peculiarità del loro popolo. Furono esclusi anche dal risarcimento elargito dalle autorità tedesche alle vittime dell’Olocausto: esse si giustificarono sostenendo che i Rom e i Sinti furono perseguitati “non per motivi razziali ma in quanto asociali e criminali”.

Quello che è accaduto nella prima metà del ’900 ha ripercussioni violente e vergognose ancora oggi. Eredità materiali e ideologiche Parlo dei campi-nomadi, esistenti ancora oggi con la stessa funzione che avevano in epoca nazista: negare ad un popolo la sua identità e le sue esigenze, isolarlo ma renderlo al contempo ben visibile quale esempio negativo e disprezzabile; posti in cui nemmeno il Gagio (non rom) più disperato andrebbe a vivere, potendo scegliere. Ma parlo anche del razzismo nazifascista che la storia non ha mai condannato, e quindi de facto ha giustificato.

Le strategie di sopravvivenza

La situazione attuale è sotto gli occhi di tutti. Il popolo rom è attualmente usato come strumento di propaganda politica, proprio come il popolo ebraico lo fu per il movimento nazista: la maggior parte delle campagne elettorali, di qualunque schieramento, hanno fra i punti programmatici il “problema rom”; ministri, deputati e politicanti vari possono dire a microfoni aperti “è più facile educare un cane che un bambino rom” (Tiziana Maiolo, FLI, commentando la morte di quattro bambini rom in un incendio) sicuri che nessun connazionale li denuncerà al Tribunale internazionale dell’Aja per istigazione all’odio razziale.
D’altra parte l’Italia è piena di associazioni e commissioni nate per dedicarsi al “problema rom”. Di queste, però, solo alcune agiscono nell’interesse di questo popolo reietto. Una gran parte si limita a percepire ingenti somme da fondi statali e, soprattutto, internazionali, avendo cura di far permanere il problema più a lungo possibile (perché finché c’è il problema ci sono i soldi). Agli italiani, parallelamente, si fa credere che con le imposte da loro versate si facciano vivere a sbafo le famiglie nei campi rom, in un circolo vizioso di odi, rancori e razzismo, in cui i più furbi si riempiono le tasche.

In questo quadro desolante, costruito nel corso di quasi un millennio, i rom hanno imparato a difendersi attraverso mirate strategie di sopravvivenza, la maggior parte delle quali sono i punti di scontro fra la cultura romanès e quella dei Gage. Santino Spinelli, nel suo saggio “Rom, genti libere”, li chiama “popoli-resistenza”, in grado di alzare un muro culturale impenetrabile al fine di preservare se stessi.

Le strategie di sopravvivenza sono:

La solidarietà del gruppo familiare: è il gruppo primario a essere decisivo per la sopravvivenza. Esso deve essere compatto e coeso per resistere agli attacchi esterni. La solidarietà si manifesta soprattutto attraverso il supporto umano, economico e materiale. La propria cultura, il proprio mondo, va celato alle popolazioni ospitanti: ogni membro della popolazione romanì ha spesso una doppia “personalità”, una interna al gruppo, orgogliosa, e una esterna da presentare ai Gage, pietosa e remissiva.

Preferenza dei legami endogamici: i matrimoni misti sono malvisti dalla comunità, a meno che l’esterno non accetti senza riserve la cultura del coniuge, la lingua e le usanze. Se ciò non avviene, l’esterno viene emarginato dalla comunità.

L’autoesclusione dalla realtà circostante: le popolazioni romanès prendono le distanze da tutto ciò che non è funzionale alla loro autoconservazione, e lo fanno in modo passivo, senza cercare lo scontro. Hanno creato attorno a sé un aura di silenzio, vuoto, invisibilità.

Il furto: anche il furto è funzionale alla sopravvivenza. Attraverso questa pratica le comunità più povere realizzano due obiettivi: si procacciano il necessario per la loro sopravvivenza e colpiscono i Gagenei loro beni materiali, sapendo che essi vivono in funzione della ricchezza, della roba, della proprietà. Il furto è la “guerriglia del perseguitato” e la sua rivalsa, non un mezzo per arricchirsi. I rom fra di loro non si derubano e non deruberebbero mai un Gagio loro amico.

Il raggiro: l’abbindolamento è anch’essa una forma di rivalsa, ma più morale che economica.

La mendicità: è la più antica strategia di sopravvivenza attuata per sopravvivere alle prime persecuzioni: non volendo reagire con le armi, i rom ripiegarono su un atteggiamento umile e sottomesso. Una forma di resistenza che rimarcava una differenza abissale fra due mondi: tendere la mano significava rendere invalicabile il proprio territorio culturale.

La mobilità: occorre ribadire che la cultura romanès non ha una vocazione nomade, ma, in un certo senso “hanno imparato” a fare i nomadi (perché bisogna saperlo fare!) per sfuggire alle persecuzioni. Non si tratta, quindi, di una libera scelta di vita, ma di un adattamento a scopo di sopravvivenza.