L’ultimo operaio
racconto di Alberto Caprara
Tarik avanzava lungo il viale. Velocemente, per quanto la trombosi alla gamba destra gli consentiva. Era in ritardo al lavoro e quella mattina la fila di auto (immobili come tutte le altre mattine) costituiva un ostacolo più duro del solito.
Tarik aveva trovato un percorso prestabilito, un filo in un labirinto, che gli permetteva di evitare le strozzature, i punti in cui le auto si erano arrestate così vicine da costituire quasi un corpo unico. Con la gamba conciata in quel modo, evitare un ostacolo senza dover tornare indietro e faticare, perdere tempo, era vitale.
Alla fine raggiunse la Circonvallazione. Lì, almeno, non c’erano auto ferme a sbarrare il passo. Bisognava solo stare attenti a quelle che si muovevano a velocità folle, sparate verso chissà quale destinazione.
La giornata era luminosa. Da un po’ di tempo tutte le giornate si assomigliavano, almeno nella memoria di Tarik. Per lui esisteva solo la casa, il lavoro e la strada che univa quei due luoghi. La luce quando usciva, il buio quando rincasava.
Finalmente riuscì a distinguere il profilo della fabbrica in lontananza e un senso di sicurezza gli allargò il cuore. Senza accorgersene allungò il passo claudicante. Schivando uno sciame di ragazzini sporchi e dai volti deformi, Tarik oltrepassò il grande cancello d’ingresso. Il suo passo rallentò. Ora poteva tranquillamente avviarsi verso il posto di lavoro.
Ignorò le figure che si agitavano intorno al primo capannone, dirigendosi verso l’edificio K.
Il mugolio sommesso della Macchina lo salutò.
“Ciao.” disse Tarik.
“Uhmmmmmmmmmmmmmmm.” rispose la Macchina.
Si tolse la giacca, ne rimosse col dorso della mano i brandelli rimasti sulle spalle e la poggiò in un angolo. Doveva proprio trovarsene un’altra.
Si avviò verso il fondo del locale dove stava il pallet, la pedana mobile con le lamine di alluminio impilate una sull’altra, da dare in pasto alla Macchina. La Macchina le avrebbe trasformate in centinaia di scatole nuove di zecca.
Tarik ignorava l’utilizzo cui quelle scatole erano destinate. Era semplicemente il suo lavoro. Sapeva soltanto che in cambio di quelle scatole il proprietario della fabbrica riceveva cibo, che alle volte e in piccola parte, arrivava fino a lui.
Tirò la grande maniglia triangolare con cui guidava il pallet, ma dalle ruote provenne uno scricchiolio maligno. Poi il mezzo si bloccò del tutto. Con la sua gamba marcia, Tarik poteva a malapena spostare un pallet funzionante, ma con le ruote in quelle condizioni qualsiasi manovra diventava impossibile.
Tornò davanti alla Macchina.
“E adesso?” domandò Tarik.
“Uhmmmmmmmmmmmmmmm.” rispose quella.
Non c’era molto da scegliere. Il lavoro doveva andare avanti. Tarik tornò in fondo alla sala, spalancò le braccia per prendere alcune lamine e cercò di sollevarle per portarle fino alla Macchina. Si ferì tutt’e due le mani.
“Cosa fa? Si fermi, può farsi male!”
Tarik, preso alla sprovvista, mollò le lamine che ricaddero sulla pila emettendo un clangore assordante. Davanti a lui stava la figura esangue, ma sempre ben vestita, del proprietario della fabbrica.
“Perché non usa il pallet?” disse l’uomo, con un tono che esprimeva preoccupazione più che ira.
Tarik non seppe fare di meglio che indicare la ruota incriminata.
“Si è rotto? Via, via, lasci stare. Vediamo se riesco a farmene mandare un altro.”
Tarik capiva le parole del padrone, ma l’isolamento aveva fatto regredire la sua capacità di parlare quella lingua che pure, aveva imparato. D’altronde, anche con la sua lingua madre avrebbe avuto le stesse difficoltà.
“Venga qui. La vedo in brutte condizioni. Quella gamba non va proprio, vero?”
Tarik fu scosso da un moto di commozione. Il padrone che si preoccupava della sua salute! Avrebbe potuto anche piangere, se le sofferenze subìte non lo avessero privato della capacità di lasciarsi andare.
“Mi ascolti Tarik, lei è uno degli operai più fedeli e più meritevoli. È da tanto tempo che lavoriamo assieme, non è vero?” disse il padrone guardandolo da vicino con espressione bonaria. L’espressione, in realtà, somigliava più a un smorfia di dolore. Scarno e biancastro, lo sguardo vacuo, la calvizie disordinata, ogni particolare di quel viso denunciava un disagio fisico ed emotivo. Tuttavia Tarik non era in grado di cogliere quelle sfumature. Le facce che vedeva ogni giorno non esprimevano condizioni migliori, anzi.
“Ora io le devo chiedere una cosa. È una richiesta che non ho mai fatto a nessuno e mi creda, è qualcosa di davvero difficile per me.”
Tarik non aveva compreso tutto. Malgrado ciò aveva chiaro il senso di quelle parole, quell’inflessione, quello sguardo.
Era qualcosa che aveva già visto e che, in quel momento, si sovrappose ad altri istanti simili della sua vita.
Signor Tarik, non possiamo tenerla con un contratto regolare.
Signor Tarik, non possiamo pagarle tutto lo stipendio.
Signor Tarik, purtroppo i suoi contributi costituiscono un problema per l’azienda.
Signor Tarik, non possiamo più pagarla, però possiamo passarle il vitto, se vuole.
E lui aveva sempre accettato. All’inizio dopo qualche timido tentativo di opporsi, poi, vista la situazione nel resto della città e del paese, semplicemente scuotendo la testa, per annuire.
“Signor Tarik, da parecchi mesi non riceviamo più carne. Non so cosa sia successo, sembra una nuova epidemia o forse un atto terroristico che ha contaminato il mangime degli allevamenti. Fatto sta che non c’è più carne e non si sa quando tornerà sul mercato. E al di fuori degli allevamenti, di animali non ce n’è più da tempo. A parte i topi.”
Tarik annuì.
“Signor Tarik, io ho due bambini. Sono ancora piccoli e mi creda, li amo più di me stesso. Purtroppo, come tutti noi, hanno contratto un certo numero di malattie. Il pediatra mi ha detto che se saranno privati della carne per un lungo periodo, rischiano di avere la salute compromessa, se non addirittura la vita.”
Tarik annuì.
“Vede Tarik, lei vive solo, non è in buone condizioni di salute e non è più giovanissimo. Qui in fabbrica le cose non vanno bene, lo sa. La crisi non accenna a passare, nonostante tutte le rassicurazioni.”
Tarik smise di annuire, cercando il senso delle parole negli occhi dell’altro.
“Se lei volesse, io potrei farla mangiare decentemente, per qualche giorno. Lenire un po’ le sue sofferenze fisiche. E quando lei si sentisse pronto, per fare il grande passo… beh, la accompagneremmo e lei se ne andrebbe con la consolazione di aver consentito a due bambini di sopravvivere.”
Le rughe della fronte, scura come il resto del viso, ebbero un sussulto e poi si contrassero.
“Si. Ha capito bene. Le sto chiedendo, con la disperazione di un padre, di offrire il suo corpo per i miei figli. Per loro e soltanto per loro. D’altro canto,” aggiunse con un sorriso obliquo “è sempre meglio andarsene circondato di affetto che nel buio e nell’umidità di quel posto tremendo dove abita. Con attorno solamente topi.”
Il proprietario della fabbrica arretrò di un passo, continuando a guardarlo. Poi disse: “Facciamo così. Ora io la lascio qui a riflettere. Non c’è bisogno che continui a lavorare per oggi. Ci pensi su e appena ha deciso, lo comunichi al caporeparto del magazzino. Mi avviserà lui”
Tarik rimase solo e inebetito col mugolio della Macchina che interferiva con i suoi pensieri, rendendoli ancora più confusi.
“Cosa devo fare?” chiese Tarik.
“Uhmmmmmmmmmmmmmmm.” rispose la Macchina.
L’infermeria si trovava insieme agli uffici, nell’unica abitazione civile presente nel perimetro della fabbrica. A Tarik fu detto di recarsi lì e attendere istruzioni.
Mentre arrancava, con la gamba che sembrava essersi fatta più pesante, passò di fianco a un vecchio capannone quasi completamente demolito. Per terra, insieme a una varietà di detriti, vide pezzi di materiale grigiastro. I bordi sembravano pieni di minuscoli frammenti fibrosi, come fossero sfilacciati. Tarik non ricordava il nome di quel materiale, ma gli era rimasto impresso il consiglio di un suo compagno, molti anni prima. Stanne alla larga, è pericoloso. Ti entra nel corpo e ti avvelena.
Ne raccolse un pezzo grande quanto il palmo della mano e lo guardò.
Nell’infermeria, Tarik venne sottoposto a una serie di controlli medici che non ricordava di avere mai passato prima, neanche all’assunzione. Venne curato. Poi alcuni inservienti lo fecero lavare da capo a piedi, e lo condussero alla mensa dei dirigenti.
In quel momento non c’era nessuno. Per lui era stato apparecchiato un tavolo dove, oltre a piatti e posate, si trovavano una zuppiera da cui proveniva un buon odore, un’insalatiera con diversi ortaggi, delle fette di pane, un dolce. Da anni Tarik viveva con una manciata di verdure marce passate dalla fabbrica e con gli scarti che riusciva a trovare nei cassonetti.
Ora, seduto di fronte a quel paradiso per i sensi, si sentiva riconoscente. Ma quello stesso sentimento trovava un ostacolo, solido e antico, che lo costringeva su una traiettoria differente, mandandolo a rinforzare un rancore sordo che montava ad ogni minuto.
Prese il mestolo e si versò della minestra nel piatto. Poi trasse dalla tasca il pezzo grigio e con le mani forti, lo sbriciolò nel liquido caldo come fosse pane. Poi prese un pomodoro, ne morse un pezzo e staccò con i denti un brandello di quel materiale fibroso. Alcuni denti cedettero. Tarik cominciò a masticare tutto con voracità. Pomodoro e sangue, fibre e pezzi di denti e continuò, continuò finché non ebbe terminato ogni cosa.
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