fresnejl

I simulacri volanti e l’estinzione del piccione dorato

Ernesto era un venditore ambulante di gadget. Girovagava ogni giorno per la città in cerca di clienti interessati ad acquistare giocattoli a molla di produzione cinese, accendini e quant’altro il suo importatore gli procurava. Il commercio dei giocattoli di latta era stato da tempo proibito, ma questi oggetti oltre che piacere erano diventati oggetto di una forma di collezionismo compulsivo da parte di molte persone e i pezzi più vecchi o più rari potevano spuntare prezzi interessanti.
Ernesto viveva solo e poveramente in un condominio in via delle Sette Apparizioni Celesti, all’estrema periferia della città. Una periferia così estrema, così lontana dal centro che si era frammischiata e confusa con periferie di altre città in un modo così inestricabile che gli abitanti di quell’apocalittico blocco di cemento traforato, vetro e carne avevano, ormai, rinunciato a definirsi cittadini di A o cittadini di B, erano diventati, per loro stessi e per i pochi privilegiati abitanti dei centri delle città, i coatti dell’indeterminata Grande Periferia.
L’appartamento di Ernesto consisteva in una piccola stanza con angolo cottura e spigolo igiene personale. Dall’unica finestra, orientata a ovest, di quel suo appartamento al settimo piano del condomio-alveare il “Glicine azzurro”, in stile grattacielo di Manhattan, Ernesto scorgeva nella caligine dello smog altri due mega condomini, il “Gelsomino bianco”, in stile chiesa tardo-romanica francese e il “Bagolaro rosso” che esteticamente si richiamava alle carceri inglesi dell’ottocento. Per la verità Ernesto in tutta la sua vita di ambulante non aveva mai visto né bagolari, né glicini e neanche gelsomini, solo cemento e rade erbe giallastre che attecchivano qua e là e che gli facevano intuire che in qualche lontano e indeterminato luogo, molto al di là della Grande Periferia, poteva esistere una campagna reale, fatta di piante e alberi veri, al posto delle palme di plastica arancio fosforescente che si rizzavano nella Grande Periferia e le cui noci di cocco in plastica gialla a luci intermittenti segnalavano la presenza di pizzerie da asporto e bar self-service. Di stili architettonici, poi, Ernesto non si era mai interessato. Tra i due condomini di fronte al suo scorreva una superstrada a quattro corsie sulla quale, giorno e notte, fluiva un intenso traffico commerciale. Ai lati della superstrada, dietro il “Gelsomino bianco” e il “Bagolaro rosso”, si intravedevano, avvolti nell’azzurrino dei gas di scarico degli autoarticolati in transito, altri condomini dagli stili architettonici fantasiosi che si perdevano in lontananza. Per una manciata di giorni all’anno, alla fine di giugno, se non era nuvolo, verso sera, un raggio di sole attraversava lo spazio tra il “Gelsomino bianco” ed il “Bagolaro rosso” per infilarsi nella finestra dell’appartamento del nostro venditore di gadget.

Ernesto era un uomo semplice e non si lamentava, la sua vita era quella e basta, era un continuo andare, giorno dopo giorno, di piazza in piazza, di centro commerciale in centro commerciale, di discount in discount, di outlet in outlet, in un giro che negli anni era diventato un rituale che si ripeteva sempre uguale. Nella piccola cantina umida, affittata da un altro condomino per pochi euro al mese, Ernesto teneva il suo modesto magazzino di giocattoli a molla, in modo che i giochi arrugginissero un pochino e che le confezioni muffissero e invecchiassero, in questo modo passavano per oggetti di modernariato e il nostro venditore riusciva a spuntare prezzi più alti.
Unica, se vogliamo, bizzarria che Ernesto concedeva alla sua ascetica povertà, era il possesso di un raro esemplare di piccione dorato delle Andamane, uccello raro ed elusivo, sconosciuto ai più.

Una sera di aprile di tre anni prima, tornando dal suo solito giro, si era fermato a riposare su una panchina di un parco cittadino. Dopo una decina di minuti, un uomo alto e corpulento, con l’aspetto di uno che si era perduto, si era avvicinato e dopo aver cerimoniosamente chiesto il permesso si era seduto sullo spigolo della panchina opposto a quello sul quale si era sistemato Ernesto. Poi lo straniero, Ernesto aveva capito subito che l’uomo era un sudamericano di lingua spagnola, si era presentato col nome di Fresnedoso Josè Flaco, patagone e giocatore di biliardo, e aveva chiesto all’ambulante qual’era il modo più pratico e rapido per raggiungere il palazzetto dello sport di A., nel quale di lì a poco sarebbe iniziato un torneo internazionale di carambola. Ernesto aveva dato al patagone le informazioni necessarie per raggiungere il palazzetto dello sport, poi i due avevano iniziato a conversare e Fresnedoso aveva raccontato a Ernesto di essere arrivato il giorno prima, dopo un viaggio disagevole, dall’Australia con l’intenzione di partecipare al torneo internazionale di carambola della città di A. Durante il viaggio l’aereo era stato costretto a uno scalo tecnico alle isole Andamane a causa dell’improvvisa malattia del comandante dell’aereo, così gli era parso. La sosta era durata una mezza giornata. Sceso a terra, assieme agli altri passeggeri, Fresnedoso si era messo a girovagare per il mercato di Howa Towa e lì gli era venuta la malaugurata idea di comprare un piccione dorato del quale, ora, si sentivano le stridule grida provenire dalla gabbia coperta che Fresnedoso aveva appoggiato a terra accanto alla panchina. Ernesto incuriosito aveva chiesto di vedere il piccione e subito gli era piaciuto il brillante giallo oro del piumaggio che a seconda dell’incidenza della luce cangiava in arancio o in rosso cupo. L’occhio vigile e attento con il quale il piccione lo guardava nell’attesa della sua decisione, fece sì che l’ambulante si offrisse di comprarlo. I versi che il volatile emetteva non erano granché armoniosi, ma la sua bellezza compensava grandemente il suo verso stridulo. Da parte sua Fresnedoso fu ben lieto di svenderlo per pochi euro. La sera del venti giugno, al ritorno dal suo solito giro Ernesto non fu accolto dallo sgradevole tubare del piccione. Il suo richiamo fu vano.
Anassimandro, così era stato chiamato il piccione andamano, giaceva scomposto sul davanzale della finestra, in una posa contorta, come se avesse tentato di oltrepassare il vetro in una fuga impossibile, tentata in un raptus di nostalgia per le Andamane lontane.

Erano giorni tristi quelli anche senza la morte di Anassimandro, la radio trasmetteva in continuazione notizie di guerre lontane e di insurrezioni vicine, di pandemie sempre nuove, di nuove débâcle del prodotto interno lordo, di calo dei consumi e della libido nazionale. In televisione gli esperti di stato, per i quali non esisteva crisi, parlavano dell’imminente arrivo dell’influenza fenicottera africana, cugina più feroce e astuta dell’influenza bradipa amazzonica dell’anno precedente. L’economia stagnava anche in Vietnam e in Laos, paesi nei quali gli imprenditori cinesi avevano decentrato le loro fabbriche. Nuove e impensabili forme di schiavitù nascevano, il senso di precarietà nel continente si era diffuso addirittura nelle classi medie e alte che riducevano il consumo giornaliero di sostanze e gettavano un’occhiata ogni tanto al livello di benzina nel serbatoio delle lussuose limousine di rappresentanza aziendale con la preoccupazione che questa potesse finire. L’assunzione di sostanze psicotrope a buon mercato aveva raggiunto livelli incredibili. Secondo leggende che circolavano in ogni ambiente, in certi tratti dei fiumi che attraversavano la Grande Periferia la concentrazione di sostanze scaricate con le deiezioni nelle fognature era così alta da aver creato dei mix così particolari da essere addirittura imbottigliati e venduti di contrabbando nei paesi confinanti. Tour operator particolarmente intraprendenti organizzavano degustazioni notturne nei tratti più saturi dei fiumi.

Gli affari di Ernesto risentivano del clima di disperata e pesante incertezza e ristagnavano. La gente impoverita, intristita e spaventata non comprava più come prima. Gli accendini a forma di donna con le tette mobili che a pigiarne una l’altra fiammeggiava azzurrina, il suo articolo di punta fino a quel momento, non andavano più. La sera della morte di Anassimandro, Ernesto contava meccanicamente i pochi spiccioli guadagnati nella giornata e ascoltava la radio. Ogni tanto guardava i riflessi dorati delle piume del piccione morto illuminate dal sole al tramonto. All’improvviso l’uomo fu preso dall’idea strampalata di costruire, con le piume del volatile andamano, un simulacro che gli ricordasse Anassimandro, una finta piccola
colomba dorata, con l’idea di portarsela in giro come simbolo itinerante del suo desiderio di pace. Ernesto era un artigiano abile, aveva una magia delicata nelle mani che per le casualità della vita non aveva mai sfruttato e, quella sera, con tre steccoline di legno, poche piume e un niente di colla costruì un simulacro di volatile che, lanciato in aria, volteggiava lieve, in giri concentrici prima di atterrare al suolo. L’uomo si accorse subito che quello del simulacro era un volo costante, che si poteva prevedere con esattezza il punto nel quale sarebbe atterrato e con pochissimo esercizio imparò a lanciarlo in aria e a farselo atterrare su una spalla. Il mattino seguente, durante il suo solito e sempre meno redditizio giro, Ernesto iniziò a lanciare per aria il simulacro di Anassimandro. Subito notò che la gente era incuriosita dalla manovra, che si avvicinava al suo banchino, non comprava, però restava lì, nell’attesa di assistere a un nuovo lancio. Poi qualcuno azzardò, chiese il prezzo del simulacro volante e quando Ernesto disse che era un esemplare unico, si scatenò un’asta feroce alla fine della quale un insospettabile commercialista di passaggio si aggiudicò la colomba per la sbalorditiva cifra di settecentonovanta euro. Tornato a casa Ernesto disseppellì la piccola bara che aveva costruito con una scatola di cartone dalla buchetta in giardino nella quale l’aveva interrata, la aprì e con delicatezza spiumò completamente Anassimandro ricavandone piume bastanti alla costruzione di altri dodici simulacri.
Il giorno seguente gli assalti al banchino ripresero ed Ernesto riuscì a spuntare ottimi prezzi per le sue colombe dorate, anche se non si avvicinò più a cifre come quella ottenuta col primo esemplare.

In un solo giorno Ernesto vendette tutti e dodici i simulacri.

Due piani sopra l’appartamento dell’ambulante viveva Pathinarange Arawanthicosama Tattipanhumghe, un andamano emigrato di seconda generazione e i due, figure marginali della società, erano amici da molti anni. Anche Tatti, come per comodità era chiamato l’andamano, era qualcos’altro. Se Ernesto era un abile artigiano costretto dalla vita a fare l’ambulante, Tatti era uno sconosciuto grande esperto di letteratura europea del secolo passato e per campare faceva il magazziniere in un discount. I due, assieme ad altri personaggi “diversi”, come John lo smemorato anarchico americano dal drammatico passato, studioso dei flussi di traffico veicolare nelle società postindustriali e Baldassarre, vecchio ex antiquario-falsario, ospite quasi fisso del locale Albergo Popolare e studioso delle migrazioni umane prodotte dalle nuove forme di apartheid economiche che si erano sovrapposte e in parte avevano sostituito le vecchie apartheid razziali, avevano costituito una specie di circolo di liberi pensatori. Si erano portati sedie e panche e le avevano sistemate di lato all’officina di Mario il meccanico, ostinato e irriducibile riparatore di motociclette fuori produzione, in una strada poco distante dal “Bagolaro rosso”. Specialmente nella buona stagione questo gruppo di amici si ritrovava per bere sinto birra che prelevavano dai distributori automatici della zona con la chiave universale contraffatta di Jamal, l’algerino venditore di patacche, che deteneva il record assoluto di clandestinità continentale e che vantava ben trentotto provvedimenti di espulsione a suo carico mai andati a buon fine e, insieme, ragionavano e litigavano sui fatti del mondo. In una di queste discussioni, Tatti aveva definito Ernesto un Marcovaldo ancora più fuori tempo dell’archetipo calviniano. Sosteneva, l’andamano, che i Marcovaldi come Ernesto erano funghi rari, erano anticorpi che spuntavano qua e là nella società e che più la società evolveva verso forme di controllo autoritario, negazione delle capacità umane e sfruttamento schiavistico di persone rimbecillite da un uso programmato di forme di comunicazione che avrebbero decerebrato anche una scolopendra, più ne nascevano, estranei alle regole e alle cose scontate, esseri fuori tempo e luogo, depositari di conoscenze divenute inutili, anzi talvolta controproducenti.

Quando Ernesto raccontò all’amico l’incredibile successo commerciale dei suoi simulacri volanti e di come il bisnes fosse già finito per la mancanza della materia prima, questi si offrì di organizzargli un’importazione di piume dalle Andamane, coinvolgendo nell’affare la numerosa parentela che ancora abitava in quelle isole semidimenticate. Dopo la rapida conclusione della trattativa con la quale l’andamano aveva ottenuto da Ernesto il venti per cento degli utili che sarebbero derivati dall’attività della società di produzione di simulacri dorati che avrebbero costituito l’indomani, i due brindarono con sinto birra e succo di limone alla fortuna della nuova impresa. Già un’ora dopo la conclusione della trattativa Tatti spediva un’e-mail a un suo caro cugino, con la quale lo assumeva con l’incarico di direttore generale della filiale andamana della “New Hope Enterprise L.d.t.” e gli dava disposizione di farsi rilasciare dal governo locale una licenza per lo sfruttamento in esclusiva planetaria del piccione dorato, in qualsiasi forma possibile e immaginabile.
Nel giro di poco tempo la New Hope Enterprise macinava utili su utili, il piccione dorato, fino a quel momento considerato dagli indigeni andamani una scocciatura per le sue carni indigeste, il tubare stridulo, i riprovevoli usi sessuali e l’orrenda abitudine di scagazzare nei posti dove più dava fastidio, divenne una fonte di guadagno considerevole e il suo numero, già non alto, diminuì rapidamente.
Ne fu tentato l’allevamento, ma proprio per le sue bizzarre abitudini sessuali e per il carattere ostinatamente refrattario a ogni forma di collaborazione industriale, il volatile, in cattività, non si riproduceva, anzi pur di fare dispetto agli aspiranti allevatori s’asteneva da ogni genere di copula ortodossa e riproduttiva.
Il commercio di simulacri volanti divenne floridissimo, la coda di gente al banchino di Ernesto si fece sempre più lunga. Era nata nella Grande Periferia la moda di portare una colomba dorata sulla spalla come dimostrazione della propria buona volontà.
Altri ambulanti tentarono di entrare nel bisnes con simulacri volanti contraffatti, di produzione cocincinese, ma inutilmente, perché con tre steccoline di legno, un po’ di colla e poche piume dorate, senza averne coscienza, Ernesto aveva costruito un oggetto magico, che trascendeva i suoi miserevoli componenti per diventare altro, un simbolo, una speranza.
Le imitazioni in piume sintetiche di altri volatili, colorate ad arte restavano invendute sui banchini della concorrenza.
Il numero di pennuti andamani, dall’altra parte del globo iniziò a diminuire sempre di più. La rarefazione dei piccioni dorati fece sì che Ernesto e Tatti, diventati ricchi in quel poco tempo, fossero costretti a ridurre sempre di più il numero di piume impiegate per la costruzione dei simulacri volanti, finché fu superata la soglia minima sotto la quale gli stessi non erano più funzionali, non volavano più bene come prima.
Già un mese dopo, un’e-mail dal direttore generale della filiale delle Andamane avvisava i due soci che l’ultimo esemplare di piccione dorato, una vecchia femmina sterile, era stato catturato, ucciso e spennato e che quindi le piume che sarebbero arrivate con la prossima spedizione aerea sarebbero state le ultime. Il piccione dorato andamano si era, anzi, era stato estinto per sempre.

A tanti anni di distanza da questi fatti si può dire che il desiderio di pace e di tranquillità della povera gente della Grande Periferia causò l’estinzione di una specie animale.

A conclusione della loro avventura economica, Ernesto e Tatti liquidarono la New Hope Enterprise, ormai diventata a sua volta un simulacro, una scatola vuota per mancanza di piume e si ritirarono dagli affari. Avevano accumulato una montagna di euro e con cerimonia solenne, nella filiale periferica della prima banca nazionale in via dei Misteri della Fede, fu conferita loro la Iridium Card Intergalattica, con l’assicurazione che questa carta avrebbe garantito loro un credito illimitato in ogni luogo dell’universo noto e anche ignoto. A Ernesto, che in tutta la sua vita non
si era mai allontanato dalla Grande Periferia, questo credito illimitato per ogni luogo parve un pelo eccessivo, non si vedeva partire per Alpha Centauri con l’Iridium Card in mano. Nei giorni successivi la chiavetta universale taroccata di Jamal poté riposare, Ernesto e Tatti divennero dispensatori legali di sinto birra e pizze scongelate. Poi un giorno, tre mesi esatti dopo la concessione della carta, nel momento in cui Tatti aveva iniziato a introdurre il suo rettangolino di plastica nell’erogatore di bevande alcoliche, una manina snodata era uscita, armata di forbice, da uno sportello laterale della macchina e gli aveva tritato la carta che aveva in mano e già che c’era gli aveva dato una spuntatina alle unghie. I nostri due imprenditori corsero alla banca dove avevano il conto e trovarono lunghe file di persone che attendevano l’apertura pomeridiana, chi con le unghie della mano destra accuratamente spuntate e una montagnola di trucioli di plastica nella mano sinistra, chi con bauli pieni di titoli al portatore di qualche banca con sede a Barbados o nelle Falkland. Dopo tre ore di attesa furono accolti da un funzionario di sedicesimo livello, un grassone affranto e quasi liquefatto dagli assalti furenti che aveva dovuto sostenere da parte dei clienti infuriati. Il grassone liquefatto fece notare loro che probabilmente non avevano compreso appieno il codicillo FR/1289 a pagina quattrocentoventuno del contratto a suo tempo firmato, con il quale avevano dato mandato alla banca di gestire il loro danaro come questa meglio avesse ritenuto opportuno e proseguì: “D’altra parte, dovete considerare l’eccezionale crisi finanziaria che stiamo vivendo, la settima o l’ottava dall’inizio dell’anno che ha causato il fallimento del fondo per il rinnovamento tecnologico delle imprese della gomma malesiane nel quale avevamo investito, confidando nella ripresa della produzione di ginocchiere per skateboard che prevedevamo ci sarebbe stato alla conclusione dei campionati mondiali…”. Ma i nostri due imprenditori non lo ascoltavano più.
Si allontanarono dall’ufficio nel caos che era diventata la banca e arrivarono nella hall dove i corpi dei funzionari legati agli sportelli dai clienti inferociti continuavano a bruciare. Il sistema di ventilazione tentava, ormai inutilmente, di disperdere il fumo acre che si levava dai copertoni di auto incendiati che i funzionari avevano al collo, come era successo durante gli scontri nella bidonville di Soweto, in Sudafrica, negli anni settanta del secolo scorso. Uscirono e si fermarono sulla scalinata. Nella piazza, un po’ defilati, John, Baldassarre, Jamal e Mario li stavano aspettando. Ernesto e Tatti iniziarono a scendere. A metà scalinata un’esplosione li fece fermare, si voltarono e videro volute di fumo nero e oleoso uscire dalle finestre sfondate del secondo piano.
Ernesto si volse verso Tatti dicendo: “Ho sempre avuto l’impressione che le sinto birre scroccate con la chiave contraffatta di Jamal fossero più buone”. Tatti annuì e sorrise.
La colonna di fumo alle loro spalle era sempre più densa.
Continuarono a scendere.
Altre colonne di fumo aveva iniziato ad innalzarsi, qua e là, nella Grande Periferia.

Fresne (J.L.)