Una questione di coglioni
(Gianni Cusumano)
Mio padre era un brav’uomo, dai sani principi. M’insegnò a non temere nulla nella vita, se non il buon Dio. Non porti mai troppe domande, diceva, sennò sono cinghiate. Non leggere mai troppo, sennò sono cinghiate. E fidati solo di chi mangia polenta, sennò…
M’insegnò a tenere la schiena dritta mio padre, e a romperla a chi rompeva i coglioni. Buona parte delle sue parole sono rimaste impresse nel mio cuore, altre suturate sulle spalle e lungo l’arcata sopraccigliare destra. Evidentemente rompevo molto i coglioni. Così non mi sono mai fatto troppe domande, leggo al massimo le controindicazioni della pomata per le emorroidi, mi fido solo della mia polenta, non ho una donna né figli ai quali imprimere sottopelle i miei insegnamenti. Ma, grazie a Dio, rompo molte schiene. Schiene d’uomini neri, soprattutto. Ce ne sono ovunque. Marocchini, Tunisini, Algerini, Indiani, si spezzano che è una bellezza. Niente da più soddisfazione di guardarli sbattuti a terra, immersi nel sangue, con le ossa fracassate, gli occhi maciullati, i denti frantumati, che urlano pietà. Uomini neri che muoiono di paura. Nemmeno il mio lavoro di proctologo mi soddisfa tanto. Uso una mazza d’alluminio, leggera ma molto, molto pratica. Colpisco forte e non m’importa che gli schizzi di materia cerebrale imbrattino l’aquila argentata sulla mia nuova divisa da rondista, perché penso alle nostre donne, ai nostri giovani, alla nostra patria. Buon Dio, macché razzismo! È solo una questione di rottura di coglioni.