Vi Propongo l’articolo apparso su “il manifesto” in data 20/02/2010, relativo all’intervento di Roberto Benigni al festival di Sanremo.
Vasili
Benigni e «Fratelli d’Italia», dubbi su una lezione di storia¶
Alberto Mario Banti
Roberto Benigni a Sanremo: ma certo, quello che voleva bene a Berlinguer! Quello che – con gentile soavità – insieme a Troisi scherzava su Fratelli d’Italia … Che trasformazione! Sorprendente! Eh sì, giacché giovedì 17 febbraio «sul palco dell’Ariston», come si dice in queste circostanze, non ha fatto solo l’esegesi dell’Inno di Mameli. Ha fatto di più. Ha fatto un’apologia appassionata dei valori politici e morali proposti dall’Inno. E – come ha detto qualcuno – ci ha anche impartito una lezione di storia. Una «memorabile» lezione di storia, se volessimo usare il lessico del comico.
Bene. E che cosa abbiamo imparato da questa lezione di storia? Che noi italiani e italiane del 2011 discendiamo addirittura dai Romani, i quali si sono distinti per aver posseduto un esercito bellissimo, che incuteva paura a tutti. Che discendiamo anche dai combattenti della Lega lombarda (1176); dai palermitani che si sono ribellati agli angioini nel Vespro del lunedì di Pasqua del 1282; da Francesco Ferrucci, morto nel 1530 nella difesa di Firenze; e da Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci. Interessante. Da storico, francamente non lo sapevo. Cioè non sapevo che tutte queste persone, che ritenevo avessero combattuto per tutt’altri motivi, in realtà avessero combattuto già per la costruzione della nazione italiana. Pensavo che questa fosse la versione distorta della storia nazionale offerta dai leader e dagli intellettuali nazionalisti dell’Ottocento. E che un secolo di ricerca storica avesse mostrato l’infondatezza di tale pretesa. E invece, vedi un po’ che si va a scoprire in una sola serata televisiva.
Ma c’è dell’altro. Abbiamo scoperto che tutti questi «italiani» erano buoni, sfruttati e oppressi da stranieri violenti, selvaggi e stupratori – stranieri che di volta in volta erano tedeschi, francesi, austriaci o spagnoli. E anche questa è una nozione interessante, una di quelle che cancellano in un colpo solo i sentimenti di apertura all’Europa e al mondo che hanno positivamente caratterizzato l’azione politica degli ultimi quarant’anni.
Poi abbiamo anche capito che dobbiamo sentire un brivido di emozione speciale quando, passeggiando per il Louvre o per qualche altro museo straniero, ci troviamo di fronte a un quadro, che so, di Tiziano o di Tintoretto: e questo perché quelli sono pittori «italiani» e noi, in qualche modo, discendiamo da loro. Che strano: questa mi è sembrata una nozione veramente curiosa: io mi emoziono anche di fronte alle tele di altri, di Dürer, di Goya o di Manet, per dire: che sia irriducibilmente anti-patriottico?
E infine abbiamo capito qual è il valore fondamentale che ci rende italiani e italiane, e che ci deve far amare i combattenti del Risorgimento: la mistica del sacrificio eroico, la morte data ai nemici, la morte di se stessi sull’altare della madre-patria, la militarizzazione bellicista della politica. Ecco. Da tempo sostengo che il recupero acritico del Risorgimento come mito fondativo della Repubblica italiana fa correre il rischio di rimettere in circuito valori pericolosi come sono quelli incorporati dal nazionalismo ottocentesco: l’idea della nazione come comunità di discendenza; una nazione che esiste se non ab aeterno, almeno dalla notte dei tempi; l’idea della guerra come valore fondamentale della maschilità patriottica; l’idea della comunità politica come sistema di differenze: «noi» siamo «noi» e siamo uniti, perché contrapposti a «quegli altri», gli stranieri, che sono diversi da noi, e per questo sono pericolosi per l’integrità della nostra comunità.
Ciascuna di queste idee messa nel circuito di una società com’è la nostra, attraversata da intensi processi migratori, può diventare veramente tossica: può indurre a pensare che difendere l’identità italiana implichi difendersi dagli «altri», che – in quanto diversi – sono anche pericolosi; può indurre a fantasticare di una speciale peculiarità, se non di una superiorità, della cultura italiana; invita ad avere una visione chiusa ed esclusiva della comunità politica alla quale apparteniamo; e soprattutto induce a valorizzare ideali bellici che, nel contesto attuale, mi sembrano quanto meno fuori luogo.
Ecco, con la performance di Benigni mi sembra che il rischio di una riattualizzazione del peggior nazionalismo stia diventando reale: tanto più in considerazione della reazione entusiastica che ha accolto l’esibizione del comico, quasi come se Benigni avesse detto cose che tutti avevano nel cuore da chissà quanto tempo. Ora se questi qualcuno sono i ministri La Russa o Meloni, la cosa non può sorprendere, venendo questi due politici da una militanza che ha sempre coltivato i valori nazionalisti. Ma quando a costoro si uniscono anche innumerevoli politici e commentatori di sinistra, molti dei quali anche ex comunisti, ebbene c’è da restare veramente stupefatti.
Verrebbe da chieder loro: ma che ne è stato dell’internazionalismo, del pacifismo, dell’europeismo, dell’apertura solidale che ha caratterizzato la migliore cultura democratica dei decenni passati? Perché non credo proprio che un simile bagaglio di valori sia conciliabile con queste forme di neo-nazionalismo. Con il suo lunghissimo monologo, infatti, Benigni – pur essendosi dichiarato contrario al nazionalismo – sembra in sostanza averci invitato a contrastare il nazionalismo padano rispolverando un nazionalismo italiano uguale a quello leghista nel sistema dei valori e contrario a quello solo per ciò che concerne l’area geopolitica di riferimento.
Beh, speriamo che il successo di Benigni sia il successo di una sera. Perché abbracciare la soluzione di un neo-nazionalismo italiano vorrebbe dire infilarsi dritti dritti nella più perniciosa delle culture politiche che hanno popolato la storia dell’Italia dal Risorgimento al fascismo.
Oh.. avevo provato un certo fastidio per l’episodio e ancora non avevo avuto tempo per leggere molto le reazioni in giro. Grazie Vasili! Questo articolo è… liberatorio. |
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Lancio la provocazione: ma a vostro parere è possibile una coscienza da cittadini del mondo “saltando il passaggio” di una coscienza civica su scala nazionale? E’ un dubbio che mi pongo da un po’, perché se è vero (com’è vero) che una coscienza civica nazionale alza potenzialmente muri nei confronti delle altre coscienze civiche nazionali, è anche vero che si tratta del minimo della condivisione. In altre parole, nel momento in cui non si prova affinità nei confronti di uno che parla la tua stessa lingua, abita a qualche centinaio di chilometri da te, è possibile provarla nei confronti di un abitante di Kuala Lumpur col quale anche la sola comunicazione base è abbastanza difficoltosa? Quali fattori giocano nella clamorosa mancanza di una coscienza civica nazionale nel “popolo italiano”? E questa mancanza, in definitiva, è un bene o un male? O un po’ tutte e due le cose? Per la serie “opinionismo alla cazziddio”. |
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Molto interessante! allego una lezione di Banti che mi sembra molto interessante e riguarda proprio questo tema qui si intitola: “Immaginare la nazione: la formazione del discorso nazional-patriottico.” |
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Provocazione intercettata. Rilancio. Come fare poi con il Kuala Lumporino che vive sul tuo stesso pianerrotolo? Prima di ‘donargli’ la nostra coscienza civica gli chiediamo di aspettare che la nostra personale scala nazionale abbia fatto il suo corso per poi arrampicarci incerti per quella internazionale? |
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Belle provocazioni. Trovo il tempo e le raccolgo anch’io. - – - L’attaccamento alle radici comporta inevitabili conflitti. Anziché affannarsi a cercare dubbie identità, è più utile rifarsi alle lezioni di Jürgen Habermas e di Denis de Rougemont che da prospettive differenti prefigurano comunità caratterizzate da valori di inclusione e solidarietà. Tutti si affannano, in questi giorni, e riempiono le pagine dei giornali, dei siti web, dei blog, e delle trasmissioni televisive, per discutere di identità: l’identità italiana, le radici cristiane dell’Italia o dell’Europa, l’identità padana (del tutto immaginaria e composita), e così via. La parola «identità», usata a proposito e a sproposito, compare sempre più spesso nei discorsi degli storici e dei giornalisti italiani, con insistito riferimento, in questi ultimi tempi, all’identità italiana (un’identità, come è noto, abbastanza incerta e traballante e prodotta con qualche fatica attraverso le vicende del Risorgimento, del Fascismo e della Resistenza). Tutti sappiamo che l’idea di una identità forte, sia delle singole persone (gli imprenditori, i costruttori del proprio destino, i protagonisti della propria vita), sia delle singole comunità (i gruppi sociali, le classi, le nazioni) sono un prodotto tipico della modernità, basato su forti investimenti ideologici e su vere e proprie costruzioni di sé con tutti gli strumenti offerti dalla mitologia (le origini, le radici) e dall’immaginario (la storia, la bandiera, gli inni, le date fatidiche, sia delle vittorie sia persino in certi casi, delle sconfitte, come è avvenuto per l’identità serba in seguito alla vittoria turca nella Piana dei Merli, nel Kosovo, il 15 giugno 1389, giorno di San Vito). Individui in movimento Nel segno dell’illuminismo Il federalista Gioberti Tre città-simbolo Appartenenza e egoismo |
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P.S. Vasili ti va se metto questa pagina “pubblica” così è raggiungibile anche se non si effettua il login o non si è del coordinamento? |
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ragazzi a me sembra un po’ esagerata questa critica a Benigni. Certo da storico mi sono messo a ridere a sentire le cazzate che sparava, e ho provato fastidio quando La Russa si è alzato entusiasta ad applaudire. Ma non è vero che si è tentato di fare una lezione di Storia. Come può un buffone come lui anche minimamente pensare di poterla fare? Si è trattato semplicemente di tentare di rendere partecipe un popolo di capre ad un anniversario che lascia il tempo che trova: i 150 anni di Italia. Lo sappiamo com’è Benigni insomma. La realtà è che queste celebrazioni non ci toccano e non hanno motivo di farlo. Se si considera inutile un anniversario del cavolo si considererà terribile un tentativo di esaltarlo. Boh il resto mi sembra retorica inutile, Benigni è così, è sempre stato così, se gli chiedessero di fare un intervento sul fascismo riuscirebbe a renderlo gradevole (probabilmente rifiuterebbe), almeno per chi non sa di cosa si parla, ed è questo il punto. La gente che era lì non sapeva di cosa stesse parlando. Queste sono cose da storici, ma benigni per fortuna non è né uno storico né un politico. Dovremmo piuttosto parlare del fatto che abbiamo un fascista come La Russa come ministro, e non perdere tempo a parlare di Benigni, che sicuramente non ha risvegliato in nessun italiano una briciola di nazionalismo. |
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Non so, in realtà, quanto ci possa non interessare la visione di Benigni sul Risorgimento. Alla fine dei conti, ultimamente, l’allegro comico riscontra molto favore all’interno della società italiana (sia di sinistra che di destra) – soprattutto dopo aver sbandierato Dante a destra e a manca si è iniziato a vederlo come un po’ più che un semplice buffone. Forse sbaglio quando penso che le persone (o le masse, se si vogliono intendere così) sono “toccate” maggiormente quando chi diffonde informazioni o punti di vista viene considerato “vate” (si è parlato di Benigni come un vate, se non ricordo male). In ogni caso, la questione non è tanto quanto Benigni abbia presa, ma a che livello si trovi l’identità italiana, se d’identità si vuol parlare. Anche sentendo Benigni, non ad un altissimo livello, per quanto non sia proprio una novità che la cosa si risolva in “coscienza storica italiana: questo sconosciuto” (io Benigni, tra le altre cose, non l’ho mica visto… questo perchè mi ostino a non vedere Sanremo credendo essere un semplice programma di diffusione musicale, poi guarda te, diventa un collettore di politica a tutto tondo – vedi luca che s’incazza inveendo contro questo paese in cui non puoi avere un’opinione non bipartisan. Io amo questo paese, vedi i programmi politici e si parla di cazzate, vedi i programmi di cazzate e si parla di politica. Se non fossi maniaca del non-sense mi sparerei…). (sì, è un intervento lungo e di merda) |
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Se un antropologo alieno venuto da un altra galassia atterrasse sulla terra per studiare gli italiani direbbe che si tratta di un popolo senza storici. Non credo che queste “masse” sappiano che cosa voglia dire la parola vate, ne credo che gliene freghi qualcosa del risorgimento, o del nazionalismo, o del totalitarismo o di tutte quelle cose che ci piace studiare. Sono cose da storici in questo senso. Sono tutti bravi a dire che la storia sia importante, ma per quanto ne so è una cosa che serve solo a chi la conosce, e difficilmente viene comunitarizzata (parlo sempre di Italia). C’è un distacco inevitabile fra l’intellettuale e il popolo, e questo lo sappiamo anche perché questo distacco è storico. Quanti italiani credi che abbiano letto 1984? La politica è quella che DOVREBBE tener conto della memoria storica, ma ti pare che sia minimamente così? A me pare che sia un continuo cucire e scucire: si unisce l’italia – si vuole dividere l’italia; si fa il fascismo – si abbatte il fascismo – e poi abbiamo di nuovo ministri fascisti; si fa la costituzione – si cambia la costituzione; si fa il 68 – si nega il 68; si è repubblichini – si diventa magicamente partigiani; e così via. Ti dico questo con la massima umiltà perché non mi ritengo abbastanza preparato da affrontare questo argomento, soprattutto sulla questione dell’identità. Non so se la missione della storia sia quella “di diffondere la questione dell’identità”, ma sinceramente mi pare si sia dimostrato un concetto vuoto superato. L’unica identità che mi sento di poter definire reale è quella personale, ogni individuo ha la sua, ed è diversa da quella dei suoi vicini di casa, da quella di sua moglie o di suo padre. Almeno per quanto mi riguarda la penso così. Poi ti ripeto, io mi considero un pessimo storico, un pessimo intellettuale, un pessimo studente. CIAU! |
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Io mi considero un pessimo essere umano, alla fine dei conti. |
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Sono d’accordo nel differenziare nazionalismo e quello che, forse impropriamente, ho chiamato ‘senso civico nazionale’. |
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Per iniziare, resto alla provocazione. Giustamente, poi, Marabou ci fa notare che se parliamo di nostra identità/appartenenza (la dicotomia è importante, come scrive Cesarani nell’articolo che ho riportato) oggi allora dobbiamo parlare di scenari transnazionali de facto, a livello di civiltà materiale mi verrebbe da dire. Ne conseguirebbe che il “gradino” nazionale dovrei saltarlo per forza, per evitare di non cadere nella contraddizione che la provocazione illumina, in tutto o in pare: Detto ciò, va precisato che il nazionalismo (uno dei tanti processi di formazione dell’identità, che appunto può essere plurale) non è necessariamente imperialismo o nazifascismo, ma questo – come voi che seguite la Tolomelli sapete bene – è il preciso risultato storico della famosa “torsione imperialistica del nazionalismo”, che prende il via dal 1870 e ci si trascina dietro fino al 1945. Al di là di quanto questo o quel modo di porsi di fronte all’identità sia pericoloso o scivoloso (ma giustamente questi sono problemi che mi stanno fortemente a cuore), io penso che il nocciolo del discorso sia capire cosa è al centro del discorso. Ecco, non mi sembra di essere troppo lontano, se azzardo la definizione che una identità si plasma su alcuni interessi. E, al solito, questi sono particolari. E infatti le identità sono anche di classe, di gruppi, di élites e non solo di nazioni. Perfino noi, come coordinamento, stiamo sbattendo ora la testa su quali interessi mettere al centro e quali criteri di riferimento darci per stabilire inclusioni ed esclusioni. Ci comportiamo come un’istituzione statale (o politica in genere) che sceglie le sue regole di “cittadinanza”. Quindi darsi dei criteri condivisi su cui basare, in generale, la propria esistenza mi pare il terreno di confronto. Per me, rimane un’indicazione di massima (assieme morale e fattuale) continuare considerare come mia comunità di riferimento, la totalità umana e non-umana. Quindi mi viene difficile pensare a dei gradini da percorrere, perché morireri prima di raggiungere la meta. È ovvio, però, che in questo cammino, perché sempre di un percorso condizionato dal tempo si tratta, il modo in cui questi principi si concretano dipende anche da tutta una serie di fattori che rendono complesso il reale. Su quanto poi sia esagerata la critica a Benigni, non so.. Il mio fastidio, effettivamente, non è dovuto al personaggio in quanto tale (di cui non me ne può..), ma condivido moltissimo l’intervento di Lara: uno storico non può fare a meno di notare alcuni elementi “culturali”, anche se estremamente divulgativi e portati in giro dalla bocca di un buffone (che peraltro ha registrato dei livelli di ascolti altissimi: quasi tutti i telespettatori di Santoro hanno cambiato canale solo per il suo intervento, se ricordo bene e per quanto i rilevamenti Auditel possano valere). Anzi: (non sarà questo il caso) ma a volte questi sono indicatori di come alcuni “discorsi” siano diventati “senso comune” e quindi tanto più pericolosi, se si fanno portatori di contenuti razzisti, come facevo notare sopra. Secondo me, e chiudo l’intervento straziante, un anniversario come questo è anche l’occasione per rimettere in discussione quei principi. |
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Continuo a non volermi perdere l’occasione di rompervi.. altro articolo di qualche giorno fa sempre sul Manifesto, 26 febbraio 2011. Il corpo delle donne non è della Nazione La nazione ha molto a che fare con le donne, ma niente con la loro libertà. Per questo il senso della manifestazione del 13 febbraio, o almeno il senso che sembra esserne stato ricavato in area Pd, è problematico, se non preoccupante. Sia in alcuni interventi precedenti che in molti commenti successivi, donne e Italia, donne e nazione vengono evocate come indissolubilmente legate, così che le donne simboleggiano il vero cuore della nazione (anzi, il suo «corpo»), ciò che la salverà. E del resto che fosse in gioco non soltanto la «dignità delle donne», ma quella della nazione è stato detto esplicitamente più volte. In questo, ahimé, non vi è nulla di nuovo. Tutti i nazionalismi hanno usato e usano questa retorica, compresi naturalmente i fascismi. Non è difficile capire perché. Le donne, i loro corpi, rappresentano e custodiscono la «tradizione», e insieme ne promettono continuità e futuro. Per questo il dominio su di loro e i loro corpi è essenziale, così come, complementarmente, l’esclusione degli «altri» (maschi) dall’accesso a questi corpi stessi. Sessismo e razzismo (e omofobia) non solo vanno insieme ma sono in certo senso presupposti e risultati della nazione. Quali corpi, quale corpo? I corpi degli uomini, votati al sacrificio supremo per difenderla, i corpi delle donne, da cui dipende il suo futuro. Il Corpo della nazione (basta vedere l’iconografia) è invece esclusivamente femminile, così come, è ovvio, la mente è maschile. Metafore, certo, ma performanti. E pericolose. In primo luogo per la libertà femminile, che si fonda precisamente sulla possibilità e capacità di disporre di sé, della propria sessualità e fertilità. Ora, è proprio questo che è impossibile per la tenuta e la continuità della nazione: il corpo delle donne deve essere soggetto a questi imperativi (tenuta e continuità), e questi imperativi, se possono mutare di contenuto a seconda delle esigenze (fare tanti figli o non farne affatto, per esempio), lo separano dai desideri e dalla volontà della singola, per sottometterlo a quelli di chi decide per il «bene della nazione». Può capitare, ed è capitato, che si faccia appello alle donne e se ne richieda una sorta di protagonismo per «la salvezza» (o «la dignità») della nazione. Ciò non implica, perlopiù, un effettivo liberarsi delle donne: come si è visto spesso nei casi delle lotte di liberazione nazionale. Finita la mobilitazione, alle donne si impone di nuovo di essere le custodi di ciò che rende la nazione tale, le tradizioni, i legami di sangue, e di piegare i propri desideri , in primo luogo rispetto alla sessualità, in funzione di ciò che la nazione e il suo futuro richiedono. Insomma la nazione, la patria, la comunità, l’identità culturale sono costitutivamente nemiche della libertà femminile. Per la nazione, la patria, ecc., le donne devono essere mogli fedeli e madri degli uomini. Al massimo, madri della patria, cui ricorrere in tempi bui. A ben vedere, ambedue, stato e nazione, poggiano precisamente su quelle dicotomie dominanti nel pensiero europeo che abbiamo cercato di decostruire inaugurando una idea e una pratica della politica diverse: soggetto-oggetto, natura-cultura, mente-corpo. Oggi, almeno in Italia, ci ritroviamo strette tra un’ideologia dominante che definisce la libertà personale come possibilità di scelta (razionale) di una «mente» separata dal corpo, il quale può dunque (e deve) diventare una merce come tutte le altre e un’ideologia confusa (e pericolosa) in cui si mescolano la tendenza a negare la singolarità e a dissolvere le differenze in un tutto indistinto, con il rischio di ricondurre il femminile a una qualche essenza consegnata nel corpo. Un corpo decoroso, beninteso. È questo impasto indigesto di decoro e maternage ciò che ci aspetta dopo Berlusconi? |
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www.repubblica.it/scienze/2011/02/27/ne... Quanta inquietudine. |
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Sì, l’ho caricato negli allegati, ecco il link: we.riseup.net/assets/47677/NationalWell...
Non so, ma mi pare che Repubblica abbia un po’ calcato la mano con termini come “patriottismo” e “nazionalismo”. Mentre lo studio sembra riferirsi più asetticamente a concetti come “comunità nazionale”. Così logico da sembrare banale. Anche questo mi sembra un piano di comunicazione molto persuasivo e indolore che fa un po’ il contorno da cui è venuto fuori l’exploit del “giullare”. |
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Qualche precisazione mi sembra necessaria. La faccenda delle donne è, a mio modo di vedere, da tenere in qualche modo “staccata” quando si parla d’identità. Non sono d’accordo con l’articolo per un altro motivo: lo Stato ha dei corpi, molto più che la nazione. Nella nazione questi hanno significato meramente “discorsivo”, come molti degli argomenti nazionali, perchè la nazione, secondo me, è un “fatto discorsivo” che nasce per sorregge la struttura statale diventandone in qualche modo il riflesso – che poi il “fatto discorsivo” prenda autonomia e vada un po’ per i cazzi suoi è un altro discorso. Non per nulla Habermas parlava del problema della legittimità (di fatto, Habermas ripropone la correlazione “oggetto-mondo” e “agire-comunicativo” di Wittgenstein… questione che ahimè è più incasinata di quel che si può pensare). Forse l’unica cosa che l’Italia ha sono le proprie differenze. E siamo in un’epoca post-moderna, la questione della “différence”, va troppo di moda, è troppo una ficata, ecc. Puntare su questo non potrebbe essere qualcosa di positivo? Si dovrebbe avere il coraggio di riformulare in chiave del tutto differente gli argomenti della Lega (cioè quello della diversità). Questo perchè sono convinta che il leghismo sia il nuovo fascismo, in linea con lo “spirito del tempo”. Ed in realtà non so se si è capito qualcosa, di quello che ho scritto. E non sono del tutto sicura di essere d’accordo io stessa, con quello che ho scritto. |
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Sempre per rimanere sulle “vibrazioni pop”, segnalo questo: |
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Ecco dove ci troviamo… |
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Segnalazioni:
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Ragazzi, la butto là come possibile punto sul quale iniziare ad organizzare un futuribile “sbocco esterno” del nostro gruppo di lavoro: considerando che c’è un buco immondo nel programma della triennale, siccome la storia moderna finisce nel 1815 e la gran parte dei nostri contemporaneisti (vedi Mariuccia) iniziano nel 1870 se non dopo, buco che corrisponde esattamente a quel che chiamiamo risorgimento, che ne dite se iniziassimo un ragionamento su quei 55 anni decisivi per tutta una serie di processi storici? Ragionamento che potrebbe essere proposto appunto in incontri pubblici ai triennialisti etc.? |
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Bella idea. Parliamone anche in assemblea. Segnalo, intanto, questi seminari: corsi.unibo.it/scienzestoriche/Eventi/2... Due presentazioni di libri che, forse nell’ottica che ci siamo detti in assemblea, potrebbero entrare nella riflessione Nazione/Unità d’Italia:
P.S. ma qualcuno di voi ha visto “Li chiamarono.. Briganti” di Pasquale Squitieri? È un film del 1999, finanziato in parte con soldi pubblici, poi ritirato prematuramente dalle sale, ma la vicenda è poco conosciuta. Io l’avevo sentita da un saggista abruzzese che scrive da anni di brigantaggio e anche sul web si trova qualche accenno alla faccenda. |
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Per rimanere sul “la butto là”: il convegno “Italian Colonialism and Islam in Eritrea (1885-1941)” (info qui) mi fa tornare in testa una cosa: se usciamo a maggio con “qualcosa” su Unità-Risorgimento, ma con la prospettiva “larga” che ci siamo detti, ci può/deve stare qualcosa anche sul colonialismo italiano, sempre troppo poco menzionato. Dai africanisti, raccogliete la palla! |
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Il ragionamento sul colonialismo italiano è imprescindibile; però mi sembra utile circoscrivere prima il nostro campo di riflessione, altrimenti rischiamo di infilar dentro troppe cose. parliamone oggi pomeriggio |
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hai ragione! |
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www.wumingfoundation.com/giap/?p=3496 Non ho ancora avuto tempo di ascoltare la registrazione audio dell’intervento, ma pare essere estremamente interessante. (per motivi a me oscuri il link manda alla home di Giap!, ma l’articolo è facilmente individuabile) |
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PANICO sì, ma fino a un certo punto. Piuttosto, più che riprendere il discorso sul colonialismo in Eritrea {SARCASMO AUTOIRONICO}che in fondo è un tema di cui non interessa niente a nessuno, chi se ne frega{/SARCASMO AUTOIRONICO} sarei per rilanciare la discussione a partire da là dove s’era fermata. Secondo me c’è più di un salto logico nell’argomentazione di Banti e sono convinto che la sua posizione teorica scricchioli proprio per questo: il nesso “nazionale” è meno scioglibile di quanto egli creda e andrebbe analizzato dotandosi di strumenti che non siano solo quelli “nuovi” della critica testuale. |
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questo è il link per ascoltare direttamente l’audio dell’intervento di Wu Ming 1 a Rastignano: www.wumingfoundation.com/suoni/WM1_Patr... |
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www.wumingfoundation.com/suoni/WM2_Trip... Seconda parte della serata Wu Ming di cui sopra. Interessante per quanto riguarda il discorso Italia-nazione soprattutto l’inizio dell’intervento, sul risorgimento “trasferito” oltremare. |
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