Riflessioni su Benigni e il risorgimento

Vi Propongo l’articolo apparso su “il manifesto” in data 20/02/2010, relativo all’intervento di Roberto Benigni al festival di Sanremo.

Vasili

Benigni e «Fratelli d’Italia», dubbi su una lezione di storia

Alberto Mario Banti

Roberto Benigni a Sanremo: ma certo, quello che voleva bene a Berlinguer! Quello che – con gentile soavità – insieme a Troisi scherzava su Fratelli d’Italia … Che trasformazione! Sorprendente! Eh sì, giacché giovedì 17 febbraio «sul palco dell’Ariston», come si dice in queste circostanze, non ha fatto solo l’esegesi dell’Inno di Mameli. Ha fatto di più. Ha fatto un’apologia appassionata dei valori politici e morali proposti dall’Inno. E – come ha detto qualcuno – ci ha anche impartito una lezione di storia. Una «memorabile» lezione di storia, se volessimo usare il lessico del comico.

Bene. E che cosa abbiamo imparato da questa lezione di storia? Che noi italiani e italiane del 2011 discendiamo addirittura dai Romani, i quali si sono distinti per aver posseduto un esercito bellissimo, che incuteva paura a tutti. Che discendiamo anche dai combattenti della Lega lombarda (1176); dai palermitani che si sono ribellati agli angioini nel Vespro del lunedì di Pasqua del 1282; da Francesco Ferrucci, morto nel 1530 nella difesa di Firenze; e da Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci. Interessante. Da storico, francamente non lo sapevo. Cioè non sapevo che tutte queste persone, che ritenevo avessero combattuto per tutt’altri motivi, in realtà avessero combattuto già per la costruzione della nazione italiana. Pensavo che questa fosse la versione distorta della storia nazionale offerta dai leader e dagli intellettuali nazionalisti dell’Ottocento. E che un secolo di ricerca storica avesse mostrato l’infondatezza di tale pretesa. E invece, vedi un po’ che si va a scoprire in una sola serata televisiva.

Ma c’è dell’altro. Abbiamo scoperto che tutti questi «italiani» erano buoni, sfruttati e oppressi da stranieri violenti, selvaggi e stupratori – stranieri che di volta in volta erano tedeschi, francesi, austriaci o spagnoli. E anche questa è una nozione interessante, una di quelle che cancellano in un colpo solo i sentimenti di apertura all’Europa e al mondo che hanno positivamente caratterizzato l’azione politica degli ultimi quarant’anni.

Poi abbiamo anche capito che dobbiamo sentire un brivido di emozione speciale quando, passeggiando per il Louvre o per qualche altro museo straniero, ci troviamo di fronte a un quadro, che so, di Tiziano o di Tintoretto: e questo perché quelli sono pittori «italiani» e noi, in qualche modo, discendiamo da loro. Che strano: questa mi è sembrata una nozione veramente curiosa: io mi emoziono anche di fronte alle tele di altri, di Dürer, di Goya o di Manet, per dire: che sia irriducibilmente anti-patriottico?

E infine abbiamo capito qual è il valore fondamentale che ci rende italiani e italiane, e che ci deve far amare i combattenti del Risorgimento: la mistica del sacrificio eroico, la morte data ai nemici, la morte di se stessi sull’altare della madre-patria, la militarizzazione bellicista della politica. Ecco. Da tempo sostengo che il recupero acritico del Risorgimento come mito fondativo della Repubblica italiana fa correre il rischio di rimettere in circuito valori pericolosi come sono quelli incorporati dal nazionalismo ottocentesco: l’idea della nazione come comunità di discendenza; una nazione che esiste se non ab aeterno, almeno dalla notte dei tempi; l’idea della guerra come valore fondamentale della maschilità patriottica; l’idea della comunità politica come sistema di differenze: «noi» siamo «noi» e siamo uniti, perché contrapposti a «quegli altri», gli stranieri, che sono diversi da noi, e per questo sono pericolosi per l’integrità della nostra comunità.

Ciascuna di queste idee messa nel circuito di una società com’è la nostra, attraversata da intensi processi migratori, può diventare veramente tossica: può indurre a pensare che difendere l’identità italiana implichi difendersi dagli «altri», che – in quanto diversi – sono anche pericolosi; può indurre a fantasticare di una speciale peculiarità, se non di una superiorità, della cultura italiana; invita ad avere una visione chiusa ed esclusiva della comunità politica alla quale apparteniamo; e soprattutto induce a valorizzare ideali bellici che, nel contesto attuale, mi sembrano quanto meno fuori luogo.

Ecco, con la performance di Benigni mi sembra che il rischio di una riattualizzazione del peggior nazionalismo stia diventando reale: tanto più in considerazione della reazione entusiastica che ha accolto l’esibizione del comico, quasi come se Benigni avesse detto cose che tutti avevano nel cuore da chissà quanto tempo. Ora se questi qualcuno sono i ministri La Russa o Meloni, la cosa non può sorprendere, venendo questi due politici da una militanza che ha sempre coltivato i valori nazionalisti. Ma quando a costoro si uniscono anche innumerevoli politici e commentatori di sinistra, molti dei quali anche ex comunisti, ebbene c’è da restare veramente stupefatti.

Verrebbe da chieder loro: ma che ne è stato dell’internazionalismo, del pacifismo, dell’europeismo, dell’apertura solidale che ha caratterizzato la migliore cultura democratica dei decenni passati? Perché non credo proprio che un simile bagaglio di valori sia conciliabile con queste forme di neo-nazionalismo. Con il suo lunghissimo monologo, infatti, Benigni – pur essendosi dichiarato contrario al nazionalismo – sembra in sostanza averci invitato a contrastare il nazionalismo padano rispolverando un nazionalismo italiano uguale a quello leghista nel sistema dei valori e contrario a quello solo per ciò che concerne l’area geopolitica di riferimento.

Beh, speriamo che il successo di Benigni sia il successo di una sera. Perché abbracciare la soluzione di un neo-nazionalismo italiano vorrebbe dire infilarsi dritti dritti nella più perniciosa delle culture politiche che hanno popolato la storia dell’Italia dal Risorgimento al fascismo.

 

Oh.. avevo provato un certo fastidio per l’episodio e ancora non avevo avuto tempo per leggere molto le reazioni in giro. Grazie Vasili! Questo articolo è… liberatorio.
Avevo trovato particolarmente fastidioso il riferimento alla seconda guerra Punica, come la « battaglia che ha cambiato le sorti del mondo, vinta dagli italiani […] battaglia che ha dato la cultura a tutto l’Occidente, se Scipione perdeva con Annibale tutti noi eravamo di cultura fenicia » (qui, ultimi minuti).
La cultura fenicia (perché a ragionare come Benigni: Romani = Italiani, Tunisini = Fenici), intanto, ha provocato una sollevazione di popolo che ai Romani ricorderebbe molto più Spartaco di quanto ricorda Annibale.

 
 

Lancio la provocazione: ma a vostro parere è possibile una coscienza da cittadini del mondo “saltando il passaggio” di una coscienza civica su scala nazionale? E’ un dubbio che mi pongo da un po’, perché se è vero (com’è vero) che una coscienza civica nazionale alza potenzialmente muri nei confronti delle altre coscienze civiche nazionali, è anche vero che si tratta del minimo della condivisione. In altre parole, nel momento in cui non si prova affinità nei confronti di uno che parla la tua stessa lingua, abita a qualche centinaio di chilometri da te, è possibile provarla nei confronti di un abitante di Kuala Lumpur col quale anche la sola comunicazione base è abbastanza difficoltosa? Quali fattori giocano nella clamorosa mancanza di una coscienza civica nazionale nel “popolo italiano”? E questa mancanza, in definitiva, è un bene o un male? O un po’ tutte e due le cose?

Per la serie “opinionismo alla cazziddio”.

 
 

Molto interessante! allego una lezione di Banti che mi sembra molto interessante e riguarda proprio questo tema qui si intitola: “Immaginare la nazione: la formazione del discorso nazional-patriottico.”
Se avete tempo e voglia dategli un’occhiata. Io ancora non gliel’ho data bene, ma lo farò.
www.progettorisorgimento.it/risorgiment...

 
 

Provocazione intercettata. Rilancio.
Ha davvero senso parlare di scala nazionale oggi? Ormai tutto (o quasi) è transnazionale e interdipendente. Siamo sicuri che una fantomatica ‘coscienza civica nazionale’ non nasconda simbologie precise e riduttive, chiaramente passibili di strumentalizzazioni? Daltronde la coscienza civica non può che essere internazionale, estesa a tutta la sfera mondo, umana e non. Nel momento in cui mi pongo il limite ‘nazionale’ per un positivistico successivo passaggio alla sfera mondo riduco l’essere umano a ‘cittadino della MIA nazione’. Credo sia pericoloso e non penso che l’eventuale passaggio alla sfera mondo sia automatico perché si è prodotta a priori una riduzione della complessità della realtà. Tale riduzione diventa inevitabilmente ingestibile e degenerante se questa realtà non viene affrontata nella sua totalità.

Come fare poi con il Kuala Lumporino che vive sul tuo stesso pianerrotolo? Prima di ‘donargli’ la nostra coscienza civica gli chiediamo di aspettare che la nostra personale scala nazionale abbia fatto il suo corso per poi arrampicarci incerti per quella internazionale?
Dubito che i risultati possano essere positivi-stici.

 
 

Belle provocazioni. Trovo il tempo e le raccolgo anch’io.
Ma intanto non volevo perdermi di farvi notare un articolo di ieri sul manifesto.

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Un’eredità PLURALE
di Remo Ceserani (il Manifesto, 23 febbraio 2011)

L’attaccamento alle radici comporta inevitabili conflitti. Anziché affannarsi a cercare dubbie identità, è più utile rifarsi alle lezioni di Jürgen Habermas e di Denis de Rougemont che da prospettive differenti prefigurano comunità caratterizzate da valori di inclusione e solidarietà.

Tutti si affannano, in questi giorni, e riempiono le pagine dei giornali, dei siti web, dei blog, e delle trasmissioni televisive, per discutere di identità: l’identità italiana, le radici cristiane dell’Italia o dell’Europa, l’identità padana (del tutto immaginaria e composita), e così via. La parola «identità», usata a proposito e a sproposito, compare sempre più spesso nei discorsi degli storici e dei giornalisti italiani, con insistito riferimento, in questi ultimi tempi, all’identità italiana (un’identità, come è noto, abbastanza incerta e traballante e prodotta con qualche fatica attraverso le vicende del Risorgimento, del Fascismo e della Resistenza). Tutti sappiamo che l’idea di una identità forte, sia delle singole persone (gli imprenditori, i costruttori del proprio destino, i protagonisti della propria vita), sia delle singole comunità (i gruppi sociali, le classi, le nazioni) sono un prodotto tipico della modernità, basato su forti investimenti ideologici e su vere e proprie costruzioni di sé con tutti gli strumenti offerti dalla mitologia (le origini, le radici) e dall’immaginario (la storia, la bandiera, gli inni, le date fatidiche, sia delle vittorie sia persino in certi casi, delle sconfitte, come è avvenuto per l’identità serba in seguito alla vittoria turca nella Piana dei Merli, nel Kosovo, il 15 giugno 1389, giorno di San Vito).

Individui in movimento
Forse è il caso di dirci, sommessamente, che si corrono grossi rischi, e si cade in troppe rigidità ideologiche, quando si parla di identità. L’attaccamento alle radici, siano esse etniche, culturali o, peggio ancora, religiose, comporta un’inevitabile conseguenza di conflitti. La difesa della propria identità prevede un confronto, e spesso un contrasto (anche violento) con le identità altrui. Il panorama mondiale è ancor oggi pieno di conflitti che nascono proprio dalla rivendicazione delle proprie radici e dallo scontro fra identità diverse. E la storia offre esempi infiniti di guerre tribali, interetniche, civili, nazionali, mondiali, nate da simili rivendicazioni.
Oggi in teoria saremmo in un mondo, quello della globalizzazione o della modernità liquida, in cui gli individui si muovono sempre più rapidamente e attraversano molti confini: sono immigrati che lasciano i paesi poveri o i regimi polizieschi per andare a vivere in società più aperte e più ricche di opportunità di lavoro. Sono giovani che hanno ottenuto una formazione nelle università e in centri di ricerca del proprio paese e, per sfuggire a strutture chiuse e corporative, o per semplice desiderio di ampliare conoscenze ed esperienze, vanno a operare nei centri di ricerca o nei laboratori di altri paesi. Sono persone che si trapiantano per necessità o per gusto della novità e dell’avventura. Sono i protagonisti della mobilità sociale. Sono coppie che si formano dopo l’incontro fra individui (uomini o donne) appartenenti a culture diverse, che vanno a vivere presso uno di loro oppure si spostano entrambi in un paese terzo.

Nel segno dell’illuminismo
Se esaminiamo questo problema dal punto di vista della teoria sociale, non possiamo che contrapporre all’idea di «identità» (ossia l’attaccamento più o meno volontario alle proprie radici e alla propria comunità di origine, la disponibilità a rafforzarla e difenderla fino al sacrificio – «pro patria mori»), l’idea di «appartenenza», ossia la libera scelta della comunità in cui vivere e disponibilità a rafforzarla e difenderla, con juicio e possibilmente con armi pacifiche. È stato chiarissimo in proposito il filosofo tedesco Jürgen Habermas, che ne ha parlato al tempo della discussione sulla costituzione europea e dello scontro con chi insisteva – fra questi non solo i prelati del Vaticano ma anche Fini, se ben ricordate – sulla necessità di inserire nel testo la rivendicazione dell’identità cristiana dell’Europa.
Habermas respingeva qualsiasi idea tradizionale di nazione come «una comunità del destino plasmata da una comune eredità, una lingua e una storia comuni», e dichiarava di concepire piuttosto le nostre nazioni moderne come comunità di cittadini: «una comunità civica, anziché etnica», la cui identità collettiva «non esiste indipendentemente o antecedentemente al processo democratico da cui scaturisce» (Tempo di passaggi, Milano, Feltrinelli, 2004, ma vedi anche Ach Europa!. Kleine politische Schriften XI, Franlfurt, Suhrkamp).
Rifacendosi all’idea illuministica degli Stati moderni come formazioni storiche fondate su un contratto costituzionale, procedure democratiche, condivisione d’interessi economici, valori culturali, interpretazioni del passato e sviluppo di una «sfera pubblica», Habermas concepisce l’Europa come una comunità specifica di cittadini (citoyen) caratterizzata dalla presenza condivisa di valori come la solidarietà, l’orientamento verso il sociale, l’inclusione politica ed economica.
Questo passaggio del discorso di Habermas mi sembra di grande importanza: sarebbe bene che chi può scegliere la comunità alla quale aderire, ammesso che la possibilità di scelta sia reale (e temo che, pur con tutta la mobilità sociale del mondo globalizzato, quelli che possono scegliere non siano molti), preferisse una comunità caratterizzata da valori condivisi come «la solidarietà, l’orientamento verso il sociale, l’inclusione politica ed economica». Per fare qualche esempio dal mondo occidentale dopo la grande crisi: molti paesi europei sembrano poco inclini all’inclusione politica ed economica degli immigrati; l’Inghilterra e gli Stati Uniti, che tendono a cancellare il welfare, sembrano poco orientati verso la solidarietà e il sociale.

Il federalista Gioberti
Se poi esaminiamo il problema dal punto di vista della storia (di gran moda ai nostri giorni, in cui abbiamo delegato al bravissimo Benigni di tentare la ricostruzione, con l’aiuto di Aldo Cazzullo, delle vicende del Risorgimento – ma forse avrebbe fatto meglio a chiedere l’aiuto anche di Alberto Mario Banti), credo doveroso riconoscere che il problema dell’identità italiana sia un vero ginepraio. Tutti noi, nati nell’una o nell’altra regione italiana, abbiamo problemi non piccoli a risalire all’indietro nella storia e a identificare le nostre origini e identità. Cosa sono io, nato in Lombardia? Di eredità celtica, o germanico-longobarda, o villanoviana, etrusca, latina, romana? O addirittura pelasgica, come voleva Gioberti, uno dei padri della patria di cui si parla poco in questi giorni, il quale nel 1846 si fece sostenitore di un’Italia unificata con il consenso papale e nel 1848 si proclamò federalista? Sentite cosa scriveva nel Primato: «Il genio proprio degli Italiani nelle cose civili risulta da due componenti, l’uno dei quali è naturale, antico, pelasgico, dorico, etrusco, latino, romano, e s’attiene alla stirpe e alle abitudini primitive di essa; l’altro è sovrannaturale, moderno crtistiano, cattolico, guelfo, e proviene dalle credenze e instituzioni radicate, mediante un uso di ben quindici secoli e tornate in seconda natura agli abitanti della penisola. Questi due elementi, che sono entrambi nostrani, ma il primo dei quali è specialmente civile e laicale, il secondo religioso e ieratico, insieme armonizzano, giacché essendo logicamente simultanei e cronologicamente successivi, ma con assidua vicenda, l’uno compie l’altro, e corrispondono ai due grandi periodi della nostra istoria prima e dopo di Cristo, e alle due instituzioni italiane più forti e mirabili (alle quali credo che niun’altra si possa paragonare) cioè all’imperio latino nato dalla civiltà etrusco pelasgica, e alla dittatura civile del Papa nel medio evo, procreata dal Cristianesimo».

Tre città-simbolo
Vorrei, a tutti quanti si tormentano sulla questione dell’identità italiana, e ancor più su quella dell’identità europea, ricordare le parole di un grande intellettuale ginevrino, Denis De Rougemont, calviniano, figlio di un pastore, ma anche spirito libero e coraggiosamente radicale, che negli ultimi anni della sua vita, dopo la formazione parigina (il cui frutto fu un libro curioso e controverso: L’amore e l’occidente, 1939) e un lungo soggiorno americano, da Ginevra si spese con grande energia in favore dell’Europa, proponendo uno Stato federale basato sul modello della Svizzera (Écrits sur l’Europe, a cura di Christophe Calame, Parigi 1994). De Rougemont insiste sulle diversità delle tante componenti che formano l’Europa e sul loro ruolo fecondo (lo stesso, a maggior ragione, dovremmo dire dell’Italia): «la diversità delle tradizioni, delle lingue, dei partiti, delle nazioni e persino delle religioni, è una condizione fondamentale della creatività e dello spirito d’invenzione» propri dell’Europa.
Nella ricerca delle memorie condivise, De Rougemont mette in campo le tre città-simbolo della grande tradizione: Atene, Gerusalemme, Roma, e poi numerose culture: l’Oriente, la Grecia, il Cristianesimo, i Celti, i Germani, gli Arabi, gli Scandinavi, gli Slavi. Egli ricorda per esempio l’apporto celtico del gusto per l’avventura, per la dismisura e per la potenzialità trasfigurante del sacrificio e della sconfitta, oppure l’apporto germanico e celtico dell’ideologia cavalleresca e della fedeltà di appartenenza al clan e al ceto nobiliare, oppure ancora l’apporto occitanico della concezione cortese della vita e dell’amore, arricchita di elementi della gnosi e dell’erotismo arabo. Ma ricorda anche altri elementi, che spiegano l’insieme complesso e pieno di contraddizioni delle identità europee: 1) la molteplicità delle lingue ma anche le loro profonde e nascoste affinità, dovute all’eredità indoeuropea, che accomuna quasi tutte le lingue antiche e moderne del continente (ricorda per esempio la presenza in molti paesi dei derivati dei termini dubron e dour che in celtico e in brettone armoricano significavano «acqua», come dimostrano i nomi dei fiumi Douro in Spagna, Drance e Thur in Svizzera, Dordogne, Durance, Drôme e Dore in Francia, le due Dore in Italia, la Dordrecht in Olanda e venti altri fiumi europei); 2) la lunga tradizione di organizzazioni statali e burocratiche forti, ereditate dall’opera di romanizzazione, che ha portato gli Europei a costruire stati-nazione molto accentrati e autoreferenziali e, sottolinea De Rougemont, a non saper concepire Dio o la vita spirituale al di fuori dei quadri istituzionali delle Chiese; 3) la concezione della persona umana fortemente autonoma e impegnata a seguire una propria vocazione indipendente, ma capace di contribuire alla fondazione di valori condivisi della comunità (eredità greco-cristiana colorata di valori germanici e celtici); 4) lo spirito critico e la propensione a liberarsi dall’impalcatura del sacro e dal culto dei morti, dai miti tribali, dalle credenze religiose nate dalla paura (che De Rougemont considera una eredità propriamente evangelica); 5) la tendenza, purtroppo molto diffusa, a lasciarsi condizionare dai legami pesanti con la materialità (e quindi a essere meno distaccati e liberi rispetto, per esempio, ai popoli influenzati dall’induismo o dal buddismo); 6) la tendenza, inoltre, a lasciarsi attrarre dall’astrazione (e quindi essere meno capaci di comunicare con le proprie forze vitali dei popoli africani influenzati dall’

Appartenenza e egoismo
Mi pare un quadro straordinariamente efficace delle nostre tante diversità e un programma convincente in favore di un’Italia, e di un’Europa, non delle identità, ma delle differenze e delle appartenenze. De Rougemont aveva in mente la Svizzera: un paese in cui convivono tre religioni e quattro lingue, orgoglioso della sua indipendenza, delle sue istituzioni politiche, unito non da ragioni di identità etnica, linguistica o religiosa, ma da peculiari, rispettabilissime, tradizioni storiche (ma anche, si deve aggiungere, da non poche ragioni di convenienza e interessi economico-materiali, e da una solidarietà un po’ chiusa su di sé e corretta da un qualche egoismo – come dimostra il recente affacciarsi sulla scena politica di un movimento xenofobo come il Ppd di Christof Blocher).
Tutto considerato, mi pare che la lezione di De Rougemont, così come quella di Habermas, potrebbe essere estremamente salutare in un’Italia come è quella in cui viviamo, estremamente confusa e distratta.

 
 

P.S. Vasili ti va se metto questa pagina “pubblica” così è raggiungibile anche se non si effettua il login o non si è del coordinamento?

 
 

ragazzi a me sembra un po’ esagerata questa critica a Benigni. Certo da storico mi sono messo a ridere a sentire le cazzate che sparava, e ho provato fastidio quando La Russa si è alzato entusiasta ad applaudire. Ma non è vero che si è tentato di fare una lezione di Storia. Come può un buffone come lui anche minimamente pensare di poterla fare? Si è trattato semplicemente di tentare di rendere partecipe un popolo di capre ad un anniversario che lascia il tempo che trova: i 150 anni di Italia. Lo sappiamo com’è Benigni insomma. La realtà è che queste celebrazioni non ci toccano e non hanno motivo di farlo. Se si considera inutile un anniversario del cavolo si considererà terribile un tentativo di esaltarlo. Boh il resto mi sembra retorica inutile, Benigni è così, è sempre stato così, se gli chiedessero di fare un intervento sul fascismo riuscirebbe a renderlo gradevole (probabilmente rifiuterebbe), almeno per chi non sa di cosa si parla, ed è questo il punto. La gente che era lì non sapeva di cosa stesse parlando. Queste sono cose da storici, ma benigni per fortuna non è né uno storico né un politico. Dovremmo piuttosto parlare del fatto che abbiamo un fascista come La Russa come ministro, e non perdere tempo a parlare di Benigni, che sicuramente non ha risvegliato in nessun italiano una briciola di nazionalismo.

 
 

Non so, in realtà, quanto ci possa non interessare la visione di Benigni sul Risorgimento. Alla fine dei conti, ultimamente, l’allegro comico riscontra molto favore all’interno della società italiana (sia di sinistra che di destra) – soprattutto dopo aver sbandierato Dante a destra e a manca si è iniziato a vederlo come un po’ più che un semplice buffone.

Forse sbaglio quando penso che le persone (o le masse, se si vogliono intendere così) sono “toccate” maggiormente quando chi diffonde informazioni o punti di vista viene considerato “vate” (si è parlato di Benigni come un vate, se non ricordo male). In ogni caso, la questione non è tanto quanto Benigni abbia presa, ma a che livello si trovi l’identità italiana, se d’identità si vuol parlare. Anche sentendo Benigni, non ad un altissimo livello, per quanto non sia proprio una novità che la cosa si risolva in “coscienza storica italiana: questo sconosciuto” (io Benigni, tra le altre cose, non l’ho mica visto… questo perchè mi ostino a non vedere Sanremo credendo essere un semplice programma di diffusione musicale, poi guarda te, diventa un collettore di politica a tutto tondo – vedi luca che s’incazza inveendo contro questo paese in cui non puoi avere un’opinione non bipartisan. Io amo questo paese, vedi i programmi politici e si parla di cazzate, vedi i programmi di cazzate e si parla di politica. Se non fossi maniaca del non-sense mi sparerei…).
Seconda cosa: cosa sono le “cose da storici”? Io sono quasi fermamente convinta che la storia è qualcosa di comunitario, per lo meno ad un certo livello – ovvio che i rapporti fra Filippo II e l’impero ottomano riguardo le battaglie alla pirateria è un argomento abbastanza specialistico (per quanto…). La questione dell’identità, non lo è, secondo me, e con pieno rispetto. Gli storici sono portati a studiarla e a diffonderla il meglio possibile, perchè è quella grande parte del loro mestiere (sennò che ci sto a fare, io? in fondo non posso disgiungere il mio lavoro dalla comunità, perchè è dalla comunità che parte, è quella che studio).
Che la coscienza storica – la memoria in generale – sia qualcosa di formativo nelle menti singole e complesse di una società, dovrebbe essere importante, secondo me (basta leggere “1984”, in fondo). Soprattutto in questo paese, che è abbastanza martoriato, diciamoci la verità: divario nord-sud economico ancorchè ideologico (e lo sappiamo tutti), economia in crisi ed immigrazione che non si riesce a “controllare” (cioè, si controlla, ma in un modo che mi fa accapponare la pelle), immigrazione di seconda e terza generazione di cui non si tiene conto neanche quel minimo per nominarla, ecc. (e non parliamo di fattori esteri) La questione è specificatamente politica, perchè influenza scelte – appunto – politiche. E la politica si fa anche col consenso. Ed il consenso si basa anche su sentimenti comuni. Fra i sentimenti comuni c’è anche un senso identitario. (correggetemi se sbaglio il sillogismo)
L’identità, quella, è effettivamente un ginepraio. Non credo che la costituzione di un’identità si faccia “da soli”, intendo più che altro che questa sia da farsi proprio con gli altri sotto casa, perchè è così che siamo in qualche modo “costretti”.
Quale identità, fino a che punto, in che direzione? Sinceramente, non lo so. Nel senso che le lezioni della Tolomelli m’han messo più confusione in testa di quanto ne avessi prima, e mi viene fermamente da chiedermi se un nuovo concetto di “identità” non sia da crearsi, o se si stia già creando ed io non lo so, o se c’è già ed io sono ignorante. (Habermas a parte) L’identità, forse, non dovrebbe essere costretta in categorie “nazionale”-“internazionale”, o come qualcosa da “divulgare”. Probabilmente è una delle poche cose realmente costruttive e graduali che si hanno. A meno che non sbagli totalmente il mio punto di vista.
Insomma, la provocazione è una ficata, ma io non ho testi con cui rispondere.

(sì, è un intervento lungo e di merda)

 
 

Se un antropologo alieno venuto da un altra galassia atterrasse sulla terra per studiare gli italiani direbbe che si tratta di un popolo senza storici. Non credo che queste “masse” sappiano che cosa voglia dire la parola vate, ne credo che gliene freghi qualcosa del risorgimento, o del nazionalismo, o del totalitarismo o di tutte quelle cose che ci piace studiare. Sono cose da storici in questo senso. Sono tutti bravi a dire che la storia sia importante, ma per quanto ne so è una cosa che serve solo a chi la conosce, e difficilmente viene comunitarizzata (parlo sempre di Italia). C’è un distacco inevitabile fra l’intellettuale e il popolo, e questo lo sappiamo anche perché questo distacco è storico. Quanti italiani credi che abbiano letto 1984? La politica è quella che DOVREBBE tener conto della memoria storica, ma ti pare che sia minimamente così? A me pare che sia un continuo cucire e scucire: si unisce l’italia – si vuole dividere l’italia; si fa il fascismo – si abbatte il fascismo – e poi abbiamo di nuovo ministri fascisti; si fa la costituzione – si cambia la costituzione; si fa il 68 – si nega il 68; si è repubblichini – si diventa magicamente partigiani; e così via. Ti dico questo con la massima umiltà perché non mi ritengo abbastanza preparato da affrontare questo argomento, soprattutto sulla questione dell’identità. Non so se la missione della storia sia quella “di diffondere la questione dell’identità”, ma sinceramente mi pare si sia dimostrato un concetto vuoto superato. L’unica identità che mi sento di poter definire reale è quella personale, ogni individuo ha la sua, ed è diversa da quella dei suoi vicini di casa, da quella di sua moglie o di suo padre. Almeno per quanto mi riguarda la penso così. Poi ti ripeto, io mi considero un pessimo storico, un pessimo intellettuale, un pessimo studente. CIAU!

 
 

Io mi considero un pessimo essere umano, alla fine dei conti.
Forse la questione sta nella “fiducia” o meno. Non so, ora uso termini poco specializzati e facilmente fraintendibili.
Ma non posso credere che il paese in cui vivo (alla fin fine è un paese, si può fare tutto il decostruzionismo possibile, ma c’è bisogno di “appigli” su cui poggiare un discorso) sia del tutto irrecuperabile e totalmente inesplicabile nei suoi ingarbugli aporetici. Il lavoro di storico non è essenzialmente quello di creare identità, per me, forse ho facilitato troppo il discorso. E’ anche quella, c’è molto altro, in realtà (mi bawso più che altro su “Apologia della storia” di Marc Bloch). Però in qualche modo mi sento presa in causa, quando si attuano degli errori d’analisi storica, perchè credo che sia anche il nostro compito, quello di evitare fraintendimenti.
Però credo che così si vada troppo fuori dal “tema” del discorso, quindi lasciamo perdere. Sono due punti di vista che in fondo partono da basi “affettive” e dunque poco declinabili secondo la formula di “buono” o “cattivo”. In realtà, fino a poco tempo fa credevo anch’io che tutto questo gran parlare d’identità fosse inutile, specialmente in questo paese. E non sono ancora del tutto sicura che sia utile.
E con questo chiudo, la mia non voleva essere una critica radicale, tutt’altro (è che a volte sono troppo “animata” nelle argomentazioni, me ne rendo conto).
Però 1984 l’han letto in molti, secondo me. E’ che chissà chi lo capisce.
Ciao!

 
 

Sono d’accordo nel differenziare nazionalismo e quello che, forse impropriamente, ho chiamato ‘senso civico nazionale’.
C’è una ‘storia’ che personalmente mi affascina, e che forse può essere un buon contributo alla discussione: quella di Andrea Tron. Tron è stato uno degli ultimi grandi patrizi veneti – dell’epoca della Serenissima. Intendiamoci, non era certo un prolet hero né un progressista sfegatato, però dai suoi scritti traspare una qualità che raramente si riscontra in appartenenti ad élite economiche di vario tipo: una totale subordinazione dell’interesse privato a quello della Repubblica. Insomma, considerando l’uomo inserito in una comunità (in questo caso, quella dei cittadini veneziani), la prevalenza dell’interesse comunitario su quello individuale. Il che non vuol dire l’eliminazione di quest’ultimo: il nostro Tron aveva fior di possedimenti, e danari a palate. Però ad esempio nelle sue tenute faceva sperimentare (a proprie spese) modelli di coltivazione innovativi, e faceva di tutto per diffondere le conoscenze in materia anche ai piccoli proprietari e a mezzo stampa ai cittadini tutti. E questa sua linea d’azione la proponeva anche in contrasto con gli elementi retrogradi del patriziato, con i quali si scontrò piu’ volte e violentemente. Inoltre era un diplomatico di carriera, e faceva parte di quella grande ‘comunità sovranazionale’ cosmopolita settecentesca non a caso spazzata poi via dai nazionalismi.
Insomma, piu’ o meno questo intendevo con ‘senso civico nazionale’: l’autocoscienza della propria storia, delle differenze che ci sono tra uomo e uomo e tra cultura e cultura, e il rifiuto di tradurle in nazionalismo becero o in simili divisioni nette. Anzi, il porle a base di una ‘coscienza mondo’ fatta di tante comunità. In definitiva possiamo anche parlare di ‘senso civico’ tout court, come premessa ad un ‘senso civico globale’. Quello che mi sembra improbabile, è la possibilità di raggiungere il secondo senza il primo – leggi anche, comprendere le storie altrui senza conoscere la propria; o, vivere con l’altro ‘lontano’ senza saper vivere con l’altro ‘vicino’.

 
 

Per iniziare, resto alla provocazione.
Mi sembrano interessanti le domande che poni, ma nutro alcuni dubbi sul metodo. Innanzitutto, siamo proprio sicuri che i passaggi logici (e cronologici) che servono alla nostra razionalità per decifrare il reale sincranicamente (e diacronicamente), siano davvero “necessari”? Ammettendo che il mio obiettivo di vita risponda all’avere «una coscienza da cittadini del mondo» (devo raccogliere la provocazione), dov’è scritto che essa si raggiunga tramite una scaletta induttiva dal “nazionale” al “cosmopolita”? Anche perché, a volerla dire tutte (come emerge anche dall’ultimo di Vasili), ci sarebbero altri possibili gradini su questa salita: rionale, locale, regionale ecc.

Giustamente, poi, Marabou ci fa notare che se parliamo di nostra identità/appartenenza (la dicotomia è importante, come scrive Cesarani nell’articolo che ho riportato) oggi allora dobbiamo parlare di scenari transnazionali de facto, a livello di civiltà materiale mi verrebbe da dire. Ne conseguirebbe che il “gradino” nazionale dovrei saltarlo per forza, per evitare di non cadere nella contraddizione che la provocazione illumina, in tutto o in pare:
«se non si prova affinità nei confronti di uno che parla la tua stessa lingua, abita a qualche centinaio di chilometri da te». Perché mai, infatti, dovrei tracciare i confini (includenti-escludenti) della mia affinità in base alla nazionalità, se poi scendo sotto caso e il pakistano mi dice «soccia»?

Detto ciò, va precisato che il nazionalismo (uno dei tanti processi di formazione dell’identità, che appunto può essere plurale) non è necessariamente imperialismo o nazifascismo, ma questo – come voi che seguite la Tolomelli sapete bene – è il preciso risultato storico della famosa “torsione imperialistica del nazionalismo”, che prende il via dal 1870 e ci si trascina dietro fino al 1945. Al di là di quanto questo o quel modo di porsi di fronte all’identità sia pericoloso o scivoloso (ma giustamente questi sono problemi che mi stanno fortemente a cuore), io penso che il nocciolo del discorso sia capire cosa è al centro del discorso. Ecco, non mi sembra di essere troppo lontano, se azzardo la definizione che una identità si plasma su alcuni interessi. E, al solito, questi sono particolari. E infatti le identità sono anche di classe, di gruppi, di élites e non solo di nazioni. Perfino noi, come coordinamento, stiamo sbattendo ora la testa su quali interessi mettere al centro e quali criteri di riferimento darci per stabilire inclusioni ed esclusioni. Ci comportiamo come un’istituzione statale (o politica in genere) che sceglie le sue regole di “cittadinanza”.

Quindi darsi dei criteri condivisi su cui basare, in generale, la propria esistenza mi pare il terreno di confronto. Per me, rimane un’indicazione di massima (assieme morale e fattuale) continuare considerare come mia comunità di riferimento, la totalità umana e non-umana. Quindi mi viene difficile pensare a dei gradini da percorrere, perché morireri prima di raggiungere la meta. È ovvio, però, che in questo cammino, perché sempre di un percorso condizionato dal tempo si tratta, il modo in cui questi principi si concretano dipende anche da tutta una serie di fattori che rendono complesso il reale.

Su quanto poi sia esagerata la critica a Benigni, non so.. Il mio fastidio, effettivamente, non è dovuto al personaggio in quanto tale (di cui non me ne può..), ma condivido moltissimo l’intervento di Lara: uno storico non può fare a meno di notare alcuni elementi “culturali”, anche se estremamente divulgativi e portati in giro dalla bocca di un buffone (che peraltro ha registrato dei livelli di ascolti altissimi: quasi tutti i telespettatori di Santoro hanno cambiato canale solo per il suo intervento, se ricordo bene e per quanto i rilevamenti Auditel possano valere). Anzi: (non sarà questo il caso) ma a volte questi sono indicatori di come alcuni “discorsi” siano diventati “senso comune” e quindi tanto più pericolosi, se si fanno portatori di contenuti razzisti, come facevo notare sopra.

Secondo me, e chiudo l’intervento straziante, un anniversario come questo è anche l’occasione per rimettere in discussione quei principi.

 
 

Continuo a non volermi perdere l’occasione di rompervi.. altro articolo di qualche giorno fa sempre sul Manifesto, 26 febbraio 2011.

Il corpo delle donne non è della Nazione
di Tamar Pitch

La nazione ha molto a che fare con le donne, ma niente con la loro libertà. Per questo il senso della manifestazione del 13 febbraio, o almeno il senso che sembra esserne stato ricavato in area Pd, è problematico, se non preoccupante. Sia in alcuni interventi precedenti che in molti commenti successivi, donne e Italia, donne e nazione vengono evocate come indissolubilmente legate, così che le donne simboleggiano il vero cuore della nazione (anzi, il suo «corpo»), ciò che la salverà. E del resto che fosse in gioco non soltanto la «dignità delle donne», ma quella della nazione è stato detto esplicitamente più volte.

In questo, ahimé, non vi è nulla di nuovo. Tutti i nazionalismi hanno usato e usano questa retorica, compresi naturalmente i fascismi. Non è difficile capire perché. Le donne, i loro corpi, rappresentano e custodiscono la «tradizione», e insieme ne promettono continuità e futuro. Per questo il dominio su di loro e i loro corpi è essenziale, così come, complementarmente, l’esclusione degli «altri» (maschi) dall’accesso a questi corpi stessi. Sessismo e razzismo (e omofobia) non solo vanno insieme ma sono in certo senso presupposti e risultati della nazione.
A differenza dello stato moderno, concepito come prodotto artificiale di un patto tra individui razionali a tutela dei loro diritti, la nazione è intesa e vissuta come prodotto storico, se non addirittura naturale (in ragione dei «legami di sangue»), che si pone prima dello stato e da esso deve essere rappresentata e difesa. La nazione non è la somma di individui la cui unica caratteristica è l’essere dotati di ragione. È, in certo senso, il suo esatto contrario, ossia il prodotto organico di relazioni tra soggetti incarnati e storicamente determinati, relazioni basate sulla comunità di lingua, di storia, di tradizione: e di «sangue». Se, dal punto di vista storico, molte nazioni moderne sono piuttosto il prodotto che non il presupposto dello stato, esse vengono invece vissute come ciò che lo legittima. In linea di principio, lo stato è inclusivo: chiunque può aderire al patto. La nazione invece è esclusiva: vi si appartiene per nascita. Lo stato prescinde dai corpi, la nazione ne è costituita. Lo stato non ha un corpo (e non vive, direbbe Brecht, «in una casa con i telefoni»), la nazione invece sì.

Quali corpi, quale corpo? I corpi degli uomini, votati al sacrificio supremo per difenderla, i corpi delle donne, da cui dipende il suo futuro. Il Corpo della nazione (basta vedere l’iconografia) è invece esclusivamente femminile, così come, è ovvio, la mente è maschile. Metafore, certo, ma performanti. E pericolose. In primo luogo per la libertà femminile, che si fonda precisamente sulla possibilità e capacità di disporre di sé, della propria sessualità e fertilità. Ora, è proprio questo che è impossibile per la tenuta e la continuità della nazione: il corpo delle donne deve essere soggetto a questi imperativi (tenuta e continuità), e questi imperativi, se possono mutare di contenuto a seconda delle esigenze (fare tanti figli o non farne affatto, per esempio), lo separano dai desideri e dalla volontà della singola, per sottometterlo a quelli di chi decide per il «bene della nazione».

Può capitare, ed è capitato, che si faccia appello alle donne e se ne richieda una sorta di protagonismo per «la salvezza» (o «la dignità») della nazione. Ciò non implica, perlopiù, un effettivo liberarsi delle donne: come si è visto spesso nei casi delle lotte di liberazione nazionale. Finita la mobilitazione, alle donne si impone di nuovo di essere le custodi di ciò che rende la nazione tale, le tradizioni, i legami di sangue, e di piegare i propri desideri , in primo luogo rispetto alla sessualità, in funzione di ciò che la nazione e il suo futuro richiedono. Insomma la nazione, la patria, la comunità, l’identità culturale sono costitutivamente nemiche della libertà femminile. Per la nazione, la patria, ecc., le donne devono essere mogli fedeli e madri degli uomini. Al massimo, madri della patria, cui ricorrere in tempi bui.
Ciò che questi soggetti collettivi (nazione, patria, comunità) escludono è la singolarità. Le donne sono un tutto unico e indifferenziato, la cui soggettività è bensì incarnata, ma nel senso che essa è interamente determinata dal corpo, il quale a sua volta è letto in base alle funzioni che gli sono attribuite. Abbiamo criticato lo stato e il diritto moderno, l’idea di libertà e il paradigma politico che vi sono connessi perché si fondano su un soggetto neutro e disincarnato. Tuttavia, se stato e diritto moderni sono pur stati strumenti di emancipazione, la nazione, viceversa, è sempre stato un ostacolo per noi e per la nostra libertà.

A ben vedere, ambedue, stato e nazione, poggiano precisamente su quelle dicotomie dominanti nel pensiero europeo che abbiamo cercato di decostruire inaugurando una idea e una pratica della politica diverse: soggetto-oggetto, natura-cultura, mente-corpo. Oggi, almeno in Italia, ci ritroviamo strette tra un’ideologia dominante che definisce la libertà personale come possibilità di scelta (razionale) di una «mente» separata dal corpo, il quale può dunque (e deve) diventare una merce come tutte le altre e un’ideologia confusa (e pericolosa) in cui si mescolano la tendenza a negare la singolarità e a dissolvere le differenze in un tutto indistinto, con il rischio di ricondurre il femminile a una qualche essenza consegnata nel corpo. Un corpo decoroso, beninteso. È questo impasto indigesto di decoro e maternage ciò che ci aspetta dopo Berlusconi?

 
 

www.repubblica.it/scienze/2011/02/27/ne...

Quanta inquietudine.
Qualcuno riesce a reperire lo studio di cui parlano?

 
 

Sì, l’ho caricato negli allegati, ecco il link: we.riseup.net/assets/47677/NationalWell...
L’ho trovato direttamente sulla pagina del prof. Mike Morrison su illinois.edu..
Poche pagine, dall’abstract sembra già dire tutto:

We examined the relationship between satisfaction with one’s country (national satisfaction) and subjective well-being utilizing data from a representative worldwide poll. National satisfaction was a strong positive predictor of individual-level life satisfaction, and this relationship was moderated by household income, household conveniences, residential mobility, country gross domestic product per capita, and region (Western vs. non-Western country). When individuals are impoverished or more bound to their culture and surroundings, national satisfaction more strongly predicts life satisfaction. In contrast, reverse trends were found in analyses predicting life satisfaction from satisfaction in other domains (health, standard of living, and job).These patterns suggest that people are more likely to use proximate factors to judge life satisfaction where conditions are salutary, or individualism is salient, but are more likely to use perceived societal success to judge life satisfaction where life conditions are difficult, or collectivism predominates. Our findings invite new research directions and can inform quality- of-life therapies.

Non so, ma mi pare che Repubblica abbia un po’ calcato la mano con termini come “patriottismo” e “nazionalismo”. Mentre lo studio sembra riferirsi più asetticamente a concetti come “comunità nazionale”. Così logico da sembrare banale. Anche questo mi sembra un piano di comunicazione molto persuasivo e indolore che fa un po’ il contorno da cui è venuto fuori l’exploit del “giullare”.

 
 

Qualche precisazione mi sembra necessaria. La faccenda delle donne è, a mio modo di vedere, da tenere in qualche modo “staccata” quando si parla d’identità.
Mi spiego, premettendo che sono estremamente (ed eccessivamente) critica nei confronti della storia di genere: lo sfruttamento dell’essere femminile in quanto tale è da ricollegarsi a meccanismi che non sono ascrivibili alle sole categorie di “stato” e “nazione”, se si vuole parlare decentemente di un argomento come la strumentalizzazione delle donne, lo si deve fare prima in separata sede, e poi applicarla ai vari modelli politici-ideologici che pur utilizzandola, la fanno secondo diverse metodologie. La questione sarebbe anche vedere come le donne reagiscono a questo tipo di meccanismo.
Detto questo, io tendenzialmente sono SEMPRE in disaccordo quando si parla di questioni femminili. E con l’articolo sopracitato pure.
Questo perchè la questione femminile è vista come un’identità all’interno di un’altra identità, purtroppo, in questo mondo. Cosa che viene ripresa anche negli studi di genere, in qualche modo. Concezione che a me, detta in chiare lettere, mi fa un po’ schifo.

Non sono d’accordo con l’articolo per un altro motivo: lo Stato ha dei corpi, molto più che la nazione. Nella nazione questi hanno significato meramente “discorsivo”, come molti degli argomenti nazionali, perchè la nazione, secondo me, è un “fatto discorsivo” che nasce per sorregge la struttura statale diventandone in qualche modo il riflesso – che poi il “fatto discorsivo” prenda autonomia e vada un po’ per i cazzi suoi è un altro discorso. Non per nulla Habermas parlava del problema della legittimità (di fatto, Habermas ripropone la correlazione “oggetto-mondo” e “agire-comunicativo” di Wittgenstein… questione che ahimè è più incasinata di quel che si può pensare).
Lo Stato in quanto tale è sorretto dai corpi, ne è costituito e ne è fondato (non solo in senso biopolitico foucaultiano). Infatti lo Stato crea i suoi corpi (ed è qui che si può iniziare a parlare d’individui), lo Stato decide quale siano i corpi soggetti alle proprie leggi ed a quali leggi. L’emigrato è un individuo che può fare o non fare parte di una tale legislazione, ecc. La questione che sarebbe, forse, da chiedersi è appunto – seguendo il ragionamento di Spleen, che condivido appieno – quali sarebbero gli interessi che sono ora condivisibili? Sono sempre molto scettica quando si parla di un sistema-mondo, identità-mondo, e così via. Come storici, sappiamo benissimo che ci sono delle situazioni contingenti che richiedono delle risposte e che formano dei meccanismi di pensiero (si può dare il nome di “cultura”, che è abbastanza generico, oppure di “interesse di classe”, nella visione marxista della cosa). Per il resto, ci sono determinati “passati” storici che pesano su quel che è il riconoscimento collettivo degli individui. Credo dunque che si debba riuscire a fondare una concezione… “glocale”? (a me questa parola fa un po’ venire i brividi, ma insomma). Lo chiedo, perchè non lo so. Perchè oggi l’identità di chiunque deve fare i conti e scendere a patti con uno scenario più ampio, che è quello della globalizzazione e cioè del compenetramento delle varie culture. Non scordiamoci, però, che questo culture sono molto più “omogenee” fra loro di quanto era prima (Homi Bhabha parla più che altro di “ibridazione”, in realtà, ma insomma).

Forse l’unica cosa che l’Italia ha sono le proprie differenze. E siamo in un’epoca post-moderna, la questione della “différence”, va troppo di moda, è troppo una ficata, ecc. Puntare su questo non potrebbe essere qualcosa di positivo? Si dovrebbe avere il coraggio di riformulare in chiave del tutto differente gli argomenti della Lega (cioè quello della diversità). Questo perchè sono convinta che il leghismo sia il nuovo fascismo, in linea con lo “spirito del tempo”.
Ciò vorrebbe dire scartare il livello nazionale? Dunque scartare anche lo Stato, in qualche modo. Oppure iniziare a capire che una “nazione” è un insieme di interessi diversamente formulati e congiunti per un fine?
In quest’ultimo caso, la questione è: quale fine? Prima della globalizzazione il fine era quello dell’esistenza stessa della nazione (o dello stato proletario, perchè il comunismo stesso non si discostava da questo ragionamento – ed ora tutti mi si aizzeranno contro), un po’ come un sistema “auto-conservante”.
Ora?

Ed in realtà non so se si è capito qualcosa, di quello che ho scritto. E non sono del tutto sicura di essere d’accordo io stessa, con quello che ho scritto.

 
 

Sempre per rimanere sulle “vibrazioni pop”, segnalo questo:
« Sanremo, errori storici e l’ironia di Benigni soffocata dalla necessità di compiacere »
www.ilgazzettino.it/articolo.php?id=139...

 
 

www.corriere.it/cronache/11_marzo_03/st...

Le “vibrazioni pop” si fanno telluriche.

 
 

Ecco dove ci troviamo…
Da una parte la lega che brucia Garibaldi, dall’altra un fronte nazionale che va dal PD all’estrema destra che esalta il risorgimento senza un minomo di criticità e con un manifesto nazionalismo che personalmente mi fa un pò schifo.

 
 

Segnalazioni:

  • oggi è uscito l’inserto culturale del Sole24Ore, in copertina: “Sorelle d’Italia”.. ve lo segnalo ancor prima di averlo letto, così magari potete comprarlo :P
    Gli articoli principali sono disponibili anche su: www.ilsole24ore.com/cultura/domenica.shtml
    P.S.: se vi collegate dall’università o da casa con il proxy, IlSole24Ore è disponibile gratis agli studenti unibo: qui
  • gli editori Laterza hanno organizzato un ciclo di incontri dal titolo “L’italia unita a scuola”: bit.ly/g775Fd con la partecipazione, fra gli altri, anche del caro Banti.
    Saranno anche a Bologna (liceo Galvani, via Castiglione, 38) il 15 marzo, dalle 15 alle 21, si parlerà di Identità, con vari interventi, fra cui Emilio Gentile e Massimo Montanari.
    Programma completo: bit.ly/eCv5sS
    A Torino, invece, il 17 si parlerà di lavoro, guardate il programma e se vi viene voglia di prendere un treno, organizziamoci: bit.ly/gysEDU !
  • sempre Laterza, poi, ha organizzato un seminario sull’idea di patria, totalmente disponibile online ( bit.ly/i3pLu7 ):
    « A partire da due interventi con tesi opposte di Alberto Mario Banti e Maurizio Viroli. Il rapporto tra il patriottismo di ieri (quello del Risorgimento, del fascismo, della costituzione repubblicana) e il patriottismo di oggi, all’epoca dei localismi e della globalizzazione e di uno sperabile futuro di integrazione europea ».
  • infine: l’Osservatorio democratico sulle nuove destre, può offrirci qualche spunto di riflessione sul nazionalismo, coniugato nei termini “soliti”: bit.ly/fEsqRM
 
 

Ragazzi, la butto là come possibile punto sul quale iniziare ad organizzare un futuribile “sbocco esterno” del nostro gruppo di lavoro: considerando che c’è un buco immondo nel programma della triennale, siccome la storia moderna finisce nel 1815 e la gran parte dei nostri contemporaneisti (vedi Mariuccia) iniziano nel 1870 se non dopo, buco che corrisponde esattamente a quel che chiamiamo risorgimento, che ne dite se iniziassimo un ragionamento su quei 55 anni decisivi per tutta una serie di processi storici? Ragionamento che potrebbe essere proposto appunto in incontri pubblici ai triennialisti etc.?
Lo so, ho sparato altissimo, ma è un esigenza che quando facevo la triennale sentivo non poco.. insomma, come si fa a passare da Napoleone al secolo breve così, tranchant? Ragioniamoci.

 
 

Bella idea. Parliamone anche in assemblea.

Segnalo, intanto, questi seminari: corsi.unibo.it/scienzestoriche/Eventi/2...
c’è tutta una parte di cinema sul Risorgimento, ma era prevista per gennaio. Comunque mi pare di ricordare che la Casalena ha in programma un seminario all’interno del corso di De Bernardi proprio su cinema e Risorgimento.

Due presentazioni di libri che, forse nell’ottica che ci siamo detti in assemblea, potrebbero entrare nella riflessione Nazione/Unità d’Italia:

P.S. ma qualcuno di voi ha visto “Li chiamarono.. Briganti” di Pasquale Squitieri? È un film del 1999, finanziato in parte con soldi pubblici, poi ritirato prematuramente dalle sale, ma la vicenda è poco conosciuta. Io l’avevo sentita da un saggista abruzzese che scrive da anni di brigantaggio e anche sul web si trova qualche accenno alla faccenda.

 
 

Per rimanere sul “la butto là”:

il convegno “Italian Colonialism and Islam in Eritrea (1885-1941)” (info qui) mi fa tornare in testa una cosa: se usciamo a maggio con “qualcosa” su Unità-Risorgimento, ma con la prospettiva “larga” che ci siamo detti, ci può/deve stare qualcosa anche sul colonialismo italiano, sempre troppo poco menzionato.

Dai africanisti, raccogliete la palla!

 
 

Il ragionamento sul colonialismo italiano è imprescindibile; però mi sembra utile circoscrivere prima il nostro campo di riflessione, altrimenti rischiamo di infilar dentro troppe cose. parliamone oggi pomeriggio

 
 

hai ragione!
Ecco: a più tardi!

 
 

www.gioventuribelle.it/index-3.html

Ragazzi, è il PANICO.

 
 

www.wumingfoundation.com/giap/?p=3496

Non ho ancora avuto tempo di ascoltare la registrazione audio dell’intervento, ma pare essere estremamente interessante.

(per motivi a me oscuri il link manda alla home di Giap!, ma l’articolo è facilmente individuabile)

 
 

PANICO sì, ma fino a un certo punto.
La mostra “Gioventù ribelle”, al Vittoriano, non è neanche male da un punto di vista storico: il peggio semmai è la musica di Allevi (brrr….) e certe attualizzazioni spinte, come nel videodiscorso della Meloni che va in loop all’ingresso. Così come il titolo, “Gioventù ribelle”, introduce le biografie degli irregolari del Risorgimento, con i vari esili e peregrinazioni: ricordarsi che si trattò anche di questione generazionale non dovrebbe essere un tabù, finché ci teniamo lontani dall’esaltazione parafascista dell’anticonformismo in sé, del sacrificio, del valore etc. Purtroppo ci sono oggi forze che tirano verso quella direzione, ma sta a noi saperle riconoscere e smascherare.
Se il videogioco è un bel videogioco e rispetta le fasi storiche (almeno quelle fondamentali) ben venga. Se non è un bel gioco, non lascerà traccia di sé, amen.

Piuttosto, più che riprendere il discorso sul colonialismo in Eritrea {SARCASMO AUTOIRONICO}che in fondo è un tema di cui non interessa niente a nessuno, chi se ne frega{/SARCASMO AUTOIRONICO} sarei per rilanciare la discussione a partire da là dove s’era fermata.
Sul manifesto di giovedì, infatti, il buon (?) Banti rilancia:
goo.gl/oVVa4 e s’interroga sulla pars construens.
Se dobbiamo definitivamente mettere una distanza storica tra noi e il “discorso” risorgimentale (che fu sì democratico, ma anche nazionale) cosa possiamo mettere a fondamento del patto civile che convenzionalmente fonda una comunità statuale e nazionale? Banti risponde: il giuramento sulla Costituzione.

Secondo me c’è più di un salto logico nell’argomentazione di Banti e sono convinto che la sua posizione teorica scricchioli proprio per questo: il nesso “nazionale” è meno scioglibile di quanto egli creda e andrebbe analizzato dotandosi di strumenti che non siano solo quelli “nuovi” della critica testuale.
Ma per evitare di diventare ancora più tl;dr chiudo qui, ché tra l’altro s’è fatta un’ora assurda e l’altra cosa che volevo segnalare era il link ai Wu Ming a Rastignano, in cui sono stato preceduto.

 
 

questo è il link per ascoltare direttamente l’audio dell’intervento di Wu Ming 1 a Rastignano: www.wumingfoundation.com/suoni/WM1_Patr...
il file è anche scaricabile comodamente.
Ascoltatelo! Interessanti le riflessioni sull’Italia come mito tecnicizzato e la molteplice semantizzazione del tricolore, e sulla critica alla narrazione di Benigni e le reazioni di Banti.
La prossima volta cerchiamo di non perderci incontri come questo, specie se a due passi da noi.

 
   

www.wumingfoundation.com/suoni/WM2_Trip...

Seconda parte della serata Wu Ming di cui sopra. Interessante per quanto riguarda il discorso Italia-nazione soprattutto l’inizio dell’intervento, sul risorgimento “trasferito” oltremare.