Storia militare, roba da sociopatici filofascisti?

..O componente fondamentale di (praticamente) qualsiasi ricostruzione storiografica?
 

Invito alla discussione. Il problema secondo me esiste, nel senso che tutt’oggi molti storici (anche pluridecorati accademici) scrivono di guerra ignorandone le caratteristiche peculiari. La questione ha due radici, per come la vedo io: un superamento della storia evenemenziale che soprattutto in Italia ha significato l’eliminazione netta dell’esame approfondito del “fatto militare” (non le guerre fanno la storia, bensì.. il che è un po’ demenziale nella sua categoricità); un malinteso (ma fino a che punto?) pacifismo “retroattivo”, imposto o volenterosamente accettato dall’accademia, e non solo, all’indomani del secondo conflitto mondiale e attraverso l’ultimo cinquantennio. Dite la vostra, suvvia.

 
 

Premettendo che non vedo nulla di male nella sociopatia (anzi), senza nessuna pretesa di esaustività butto lì una semplice riflessione.
Mi pare che soprattutto per quel che riguarda la storia moderna, una delle tendenze della recente storiografia (oserei dire che anche il senso comune si muove in questa direzione) è quella di leggere buona parte dei conflitti del secolo XIX alla luce del concentrazionismo del secolo successivo. Mi spiego: la 2a guerra mondiale ha dispiegato al massimo grado di evidenza le possibilità tecniche della guerra moderna come sistema di annientamento genocida, abolendo la distinzione tra combattente e civile per eradicare “l’umano” in quanto tale. Su questo filone s’interrogano un numero sterminato di studi, vedi tutto quel che è uscito sulla nozione di “crimini contro l’umanità” e anche chi ci ha mostrato come durante gli anni ‘40 vengano importate nello spazio europeo (statualizzato) le logiche coloniali del massacro e del Lager.
E insomma, senza scendere in particolari, ho un po’ l’impressione che buona parte dei recenti studi militari in età moderna tendano a voler tracciare una sorta di genealogia di questa volontà di annichilimento dell’avversario, mostrando come la guerra dello Stato sia una sorta di emersione di uno spazio di violenza nuda per poi creare uno spazio normato, sottoposto alla legge.

Invece uhm, anche no. Intanto voler vedere la guerra necessariamente come negazione dell’altro mi sembra un errore, visto che ne presuppone anche una conoscenza e una sorta di contrapposizione mediata (anche la peggiore guerra di aggressione dovrà sempre avere una giustificazione in una pretesa mancanza morale della controparte): presuppone la codifica di un ordine di norme scritte, una legittimazione religiosa persino. L’ordine di Westfalia durò, è vero, quel che poté durare, ma rimane come asse portante anche dopo il congresso di Vienna. Se la storia militare ha qualcosa da dire anche oggi (e ce l’ha) è nel rapporto tra guerra e concezione dello spazio (e qui anche il nostro Farinelli non è che abbia scritto proprio delle cavolate), nella storia della tecnica, la storia urbana, la storia del diritto -per non parlare di quel filone meraviglioso che è la storia della diplomazia. Ok, ora basta, ’nuff said.

 
 

Domanda preliminare: “pacifismo retroattivo” nel senso di “parlare di guerra come una roba importante dopo che abbiamo visto quanto è sporca brutta e cattiva non è politically correct”?

Perché io credo che ci sia un po’ questa tendenza, almeno a livello di senso comune. Ed è vero che da un po’ di tempo in qua il fatto bellico in quanto tale è stato messo abbastanza da parte.

Intendiamoci, non del tutto a torto secondo me: leggendo il buon vecchio B. H. Liddell Hart o l’imponente Cartier sulla 2a guerra mondiale oggidì si resta un po’ insoddisfatti della ricostruzione “cronachistica” delle mere operazioni belliche, che è affascinante per carità ma forse un po’ fine a sé stesso.
La mia opinione su questo fatto è questa (personale e non esaustiva, eh!): oggi secondo me ha senso parlare di guerra calandola in un contesto più generale, sociale e culturale, quindi studiare la guerra “fatto” nell’ambito più generale della guerra “oggetto” (banale considerazione ok, ma meglio ribadire), mi spiego:

innanzitutto la guerra come forma di relazione umana; perché lo è e soprattutto lo è stata sempre: dai più era vista come una fatalità e una iattura, da molti come uno strumento, ma sempre connaturata alla natura umana (tant’è che il pacifismo si afferma dopo la prima guerra “moderna”, “industriale”, “inumana”: la Grande Guerra, le guerre del ’900!), e necessita assolutamente di essere studiata in questo senso (anche per non riproporla, secondo le sensibilità). Poi si, il discorso della reciproca conoscenza ha luogo e qui sottolineo solo come nella storia si ritrova sempre il doppio binario dei “nemici degni” verso cui vale un contegno scritto o meno e i “nemici indegni” verso cui efferatezze e sterminio sono concesse e anzi caldeggiate (a seconda dei momenti i pirati, i contadini, i “selvaggi”, i terroristi, ecc.).

In secondo luogo la guerra come occasionale “motore della storia”. Questa considerazione ha senso se si tiene presente che la guerra ha la caratteristica di essere un “catalizzatore non intelligente”, cioè gli effetti a cui dà luogo non nascono dal suo seno ma sono “accelerazioni” di processi già in atto o “reazioni” di elementi già presenti a cui il contesto bellico fornisce solo le condizioni ambientali estreme. Per questo studiare il fatto bellico si, se non gli si dà una caratura demiurgica a lui in quanto tale decontestualizzandolo. Quoto infine le ultime 4 righe del commento di Do-it, specie storia della tecnica.

P.s.: minchia che prolissità…perdonate!!!!

 
 

…impenitente: ancora una considerazione per chi ne avesse voglia:

Ovvio, il “fatto bellico” è poi in tutto e per tutto un prodotto umano, nei mezzi e nelle mentalità e quindi nelle sue cause scatenanti e nel suo svolgimento e risoluzione, nonché nelle sue caratteristiche peculiari. Pure in quest’ottica sono del tutto fondati il suo studio e la sua dignità epistemologica ed ermeneutica contando che anzi è stato ed è qualcosa che ha il potere di investire uomini e territori, di suscitare sentimenti e accendere fantasie, di dar vita a teorie e di mutare condizioni oggettive e soggettive di vita; accantonarla in una ricostruzione storiografica sarebbe come parlare dell’ultimo secolo e mezzo mettendo da parte l’industrializzazione e il comunismo! Ma io comunque lo sguardo lo amplierei sempre un minimo…

 
 

Rilancio la discussione.

Concordo con le riflessioni che avete svolto in questi commenti: si completano tutte a vicenda.
Anche io avevo guardato alla cosa come una sorta di nemesi storica: dopo anni d’histoire bataille ci si prende la rivincita, con gl’interessi! Effettivamente, se da un lato la sproporzione nell’attenzione al fatto bellico che si aveva, chessò, nel lungo XIX sec. è una cosa che oggi lascia un po’ perplessi, dall’altro è anche vero che non tenerne conto è, semplicemente, un errore storiografico. Ma sul primo termine di paragone, parlo letteralmente ‘per sentito dire’, perché non ho mai approfondito la storiografia di allora.

Quella che pone Perry è una questione di fondo (che non saprei richiamare in altri termini che non siano la struttura la sovrastruttura marxiana, senza doverne necessariamente assorbire il determinismo) che si può allargare a molte altre cose come la storia della scienza, della tecnica o dell’economia. Si potrebbe dire che, in genere, paghiamo il conto di una formazione fortemente umanistica e non è un caso, se posso fare un esempio, che le migliori interpretazioni sulla crisi degli anni Settanta sono venute fuori da economisti, seppur sui generis (v. Giovanni Arrighi oppure Riccardo Bellofiore). Mentre gli storici di professione si affannavano intorno allo shock petrolifero del 1973 (e poi del ‘79) e, chi va oltre questa interpretazione, è (solo) perché inserisce gli anni Settanta in un contesto più ampio, ma quando guarda al fatto economico in sé, ecco che torna lo shock petrolifero come centrale.
Ci sarebbe poi da dire anche dell’uso politico che, già all’indomani, è stato fatto di questo evento, in chiave anti-araba (OPEC), ma andrei terribilmente fuori tema.

Mi sento quindi di aggiungere queste due cose alla discussione:
- ridimensionamento del ruolo degli eserciti (degli Stati) come “motori” della storia internazionale, quindi superamento della storia mondiale come storia delle relazioni internazionali;
- cultura umanistica che rende difficile l’approccio alla tecnica, al “come si fa una guerra”.

P.S. mettiamo questa discussione pubblicamente sbirciabile dall’esterno?

 
 

temi.repubblica.it/limes/carte-come-arm...

:D

 
 

lo leggo domani ;)

 
   

Domanda preliminare: “pacifismo retroattivo” nel senso di “parlare di guerra come una roba importante dopo che abbiamo visto quanto è sporca brutta e cattiva non è politically correct”?