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HANNAH ARENDT di Margarethe Von Trotta, 2012¶
In occasione dell’ultimo “Giorno della Memoria” è stato distribuito nelle sale italiane il film di Margarethe Von Trotta Hannah Arendt. Va precisato che in verità l’uscita del film era prevista per ottobre dello scorso anno. Quando però sembrava tutto pronto, gli esercenti hanno deciso di togliere il film dalla programmazione. Tuttavia, dopo qualche tempo, si è giunti a un compromesso: Hannah Arendt esce, ma come “evento speciale” e solo per due giorni, il 27 e 28 gennaio 2014.
Il film della Von Trotta si concentra su un periodo particolare nella vita di Hannah Arendt, quello in cui partecipò come inviata del New Yorker al processo che si tenne nel 1961 a Gerusalemme contro Adolf Eichmann, l’ufficiale delle SS responsabile dell’organizzazione logistica dei trasporti degli ebrei nei campi di concentramento. A dispetto delle aspettative, il film si svolge principalmente a New York, città nella quale Hannah Arendt si era trasferita nel 1940, in seguito all’occupazione tedesca di Parigi.
Quello che la regista tedesca ci mostra in questo film è innanzitutto l’intenso ritratto di una donna eccezionale, coraggiosa e controversa. La costruzione del personaggio si basa su un paio dei luoghi comuni con i quali la Arendt veniva all’epoca definita, ovvero il suo essere da un lato “estremamente intelligente”, e dall’altro il suo essere “priva di sentimenti”. Luoghi comuni, certo, ma in questo caso utilizzati per non scivolare nell’agiografia rendere il personaggio complesso e sfaccettato. In aggiunta a ciò, l’attenzione posta sugli aspetti più privati che pubblici della Arendt restituisce in modo credibile l’ambiente famigliare, culturale e sociale in cui era immersa l’autrice de Le origini del totalitarismo, ovvero la New York dei primissimi anni sessanta. E ciò nonostante la regista abbia deciso di girare praticamente ogni sequenza in interni (l’appartamento e l’università), diversamente dalle poche sequenze ambientate a Gerusalemme, che invece si svolgono spesso all’aperto.
La descrizione del carattere e degli affetti della protagonista non è comunque una scelta fine a sé stessa. Essa è il sostegno sul quale appoggiare le tesi contenute negli articoli che la Arendt scrisse sul processo ad Eichmann (in seguito pubblicati nel volume La banalità del male), che scatenarono una durissima reazione di sdegno e condanna, con tanto di pressioni dirette del Mossad sulla Arendt stessa affinché rinunciasse alla pubblicazione degli scritti. Ciò che in poche parole veniva (e viene tuttora) contestato alla Arendt è il fatto di avere da un lato definito Eichmann un mediocre, un semplice burocrate (e non una belva sanguinaria, come tutti si sarebbero aspettati); dall’altro di avere accusato i capi del consiglio ebraico di corresponsabilità nello sterminio. Tanto per capirci, un personaggio di rilievo come Claude Lanzmann, autore del film Shoah, ritiene La banalità del male “Una delle più colossali idiozie mai concepite” .
Tornando al film, dopo averci illustrato le varie reazioni suscitate dagli articoli sul New Yorker, e le sue ricadute sulla vita privata e professionale della protagonista, il racconto si conclude con l’incontro pubblico che Hannah Arendt tenne in università, messo in scena dalla Von Trotta come una sorta di arringa difensiva sulla validità delle tesi contenute nella Banalità del male, e sulla sua corretta interpretazione , pronunciata nel vano tentativo di recuperare il rispetto di tutto quel mondo accademico e intellettuale che ormai le aveva voltato le spalle.
Vi sono senza dubbio dei momenti all’interno del film che risultano un po’ appesantiti dall’intento pedagogico della regista, anche a causa dell’eccessiva “carica” richiesta alla recitazione dei protagonisti, ma nel complesso l’opera regge. Certo, lo stile è tutto fuorché sperimentale o anche solo innovativo. L’opera scorre leggera, grazie a un linguaggio cinematografico semplice, se si preferisce scontato; ma la regia è discreta, concentrata, asciutta. Quello che vediamo è cioè un film puramente narrativo, che ha però il pregio di raccontare una storia importante, in cui le attrici e gli attori sono eccellenti, i dialoghi ben scritti, la ricostruzione storica accurata e documentata. Anestetizzati sull’argomento Shoah dai tempi di Schindler’s List, gli spettatori si trovano così di fronte a un’opera che dopo vent’anni di detestabili polpettoni cinematografici e televisivi sullo sterminio, non si accontenta di sfiorare i sentimenti del pubblico, ma prova a stimolarne il pensiero. O quantomeno, bisogna dare atto a Margarethe Von Trotta di avere “osato” informare dell’esistenza di una pensatrice scomoda, le cui idee malgrado tutto continuano a essere fonte di dibattito e punto di riferimento per molti. Perché se è vero che si dovrebbe non solo ricordare, ma anche vedere, affrontare l’Olocausto (ed è alla luce di questo assunto che i film di Spielberg e Benigni ci avviliscono e scoraggiano), è altrettanto vero che ci intimorisce e sgomenta chi di questo argomento vorrebbe detenerne il monopolio.
THE ACT OF KILLING, di Joshua Oppenheimer, 2012¶
Non ci sarà soltanto La grande bellezza in corsa per l’Oscar il prossimo 2 marzo. Nella categoria “Miglior documentario” concorrerà alla conquista della celebre statuetta una delle opere cinematografiche più sconvolgenti degli ultimi anni. Si tratta di The Act of Killing di Joshua Oppenheimer. Se parliamo di Oscar è perché probabilmente senza questo premio, che darebbe visibilità planetaria al film, quest’opera rischierà di restare l’ennesimo titolo di “culto” fra i cinefili più accaniti di tutto il mondo, o poco più. Mentre The Act of Killing è un film che andrebbe visto dal maggior numero possibile di persone. Perché è un film come non ne sono mai stati fatti altri. Non esiste precedente. E non c’è bisogno di conoscenze particolari, o di interrogarsi sul cinema, sul suo ruolo e funzione nella società, sulla Storia, sulla Morale, sulla finzione, sull’Estetica ecc. ecc. per potere guardare e comprendere un film come The Act of Killing. La forza stupefacente di questo film risiede nell’evidenza, di immediata comprensione, di un contesto incredibile. Più volte, nel corso della visione, ci si chiede come sia possibile che accada quello che vediamo sullo schermo. Non tanto e non solo per l’efferatezza di quanto raccontato, ma per come questa efferatezza viene percepita, e fatta percepire, tanto dai suoi attori che più in generale dalla società di cui essi sono espressione. Perché The Act of Killing è il racconto di uno sterminio, e i suoi esecutori, protagonisti del film, sono eroi nazionali.
Tra il 1965 e il 1966 in Indonesia, fino ad allora fra i cosiddetti “paesi non allineati”, prende il potere il generale Suharto, leader di una potente fazione di estrema destra dell’esercito indonesiano. Appena insiedatosi, Suharto ordina una rappresaglia nei confronti degli appartenenti al Partito Comunista (che allora contava 3 milioni di iscritti), accusati di essere responsabili del sequestro dell’ex presidente Sukarto e dell’omicidio di 6 generali. In pochi mesi, secondo i dati della CIA, 500.000 persone vengono uccise da esercito e gruppi paramilitari (i comunisti forniscono la cifra di 1.200.000 morti). Fra le vittime, anche indonesiani di etnia cinese, e un numero imprecisato di “intellettuali”. In quei mesi si distingue per crudeltà e ferocia, e per le centinaia di esecuzioni effettuate personalmente, un certo Anwar Congo. Anwar Congo, in carne ed ossa, è il protagonista di The Act of Killing.
Il progetto del film risale a poco meno di una decina di anni fa. Dopo avere collaborato a un altro film che affrontava in maniera diversa lo stesso tema , The Globalization Tapes, il regista Joshua Oppenheimer decide di trasferirsi stabilmente in Indonesia. Nel 2005 inizia a intervistare i responsabili delle carneficine e delle torture, ma anche alcuni sopravvissuti alla rappresaglia. Il problema è che il film che Oppenheimer sta costruendo, in questa forma, non ha possibilità di essere terminato. Che quei sopravvissuti intervistati vengano a loro volta uccisi, non è un rischio ma una certezza. Oppenheimer fa allora un tentativo. Rinuncia alle voci e ai volti dei sopravvissuti, e propone ai killers la realizzazione di un film nel film, chiedendo loro di mettere in scena le azioni più cruente di cui sono stati protagonisti, con loro stessi come attori, tanto nei ruolo di carnefici che in quello di vittime. Facendo leva sulla loro passione per il cinema americano (Anwar Congo dichiara di essere un fan di Marlon Brando, Elvis Presley e Al Pacino), e sul sogno di diventare loro stessi delle stelle del cinema, Oppenheimer riesce a convincere Anwar Congo e gli altri a girare The Act of Killing. “Un bellissimo film per le famiglie” dice Anwar. Il risultato è pazzesco, sbalorditivo, unico. Il film alterna le varie testimonianze e riflessioni di questi veri e propri tagliagole, con scene di finzione realizzate secondo una sceneggiatura scritta dagli stessi killers, che spaziano dal noir al western, fino al musical, secondo l’ispirazione fornita volta per volta dal loro immaginario cinematografico. Per rendere l’idea, citiamo un paio di sequenze, ma solo a titolo di esempio, perché qui non si tratta di selezionare scene o inquadrature di maggiore o minore “qualità”; qui ogni singolo istante del film “vale”, ogni momento è necessario.
In una delle sequenze che per comodità possiamo definire di “testimonianza”, vediamo Anwar Congo mostrarci uno dei luoghi dove avvenivano le esecuzioni, e spiegarci che uno dei problemi da risolvere (e da lui risolto) era come limitare la quantità di sangue che si spargeva sul pavimento quando le vittime venivano uccise a bastonate. Ecco allora Anwar prendere un fil di ferro, e insieme a un amico che lo aiuta nello dimostrazione pratica (prestandosi al ruolo di prigioniero comunista), spiegare di fronte alla cinepresa come fissando un capo del filo alla parete, attorcigliandolo intorno al collo del prigioniero, e infine tirando dall’altro capo con forza, il prigioniero moriva strangolato e mezzo decapitato, ma con poca fuoriuscita di sangue.
In un’altra sequenza, questa volta “messa in scena”, di fronte a una cascata, circondato dal verde della vegetazione e da alcune ragazze che ballano sulle note di Born Free, vediamo Anwar Congo, vestito con una tunica nera e le braccia rivolte al cielo, ricevere dalle mani di una delle sue vittime una medaglia, in segno di ringraziamento per averlo ucciso e quindi mandato in paradiso. Uno stacco ci mostra poi Anwar a casa sua, mentre guarda commosso la scena precedente, rivolgersi al regista e dire: “Josh, non avrei mai immaginato che avrei potuto realizzare qualcosa di così grande. Una cosa che mi rende orgoglioso è come la cascata riesca ad esprimere sentimenti tanto profondi”
Non aggiungiamo altro, anche se ci sarebbero tante altre cose da dire e da approfondire. Per una volta, affermare “ci si potrebbe scrivere un libro”, non è una frase fatta. Il film pone continuamente domande e interrogativi sul rapporto tra realtà e finzione, suggerisce riflessioni e pensieri sull’essenza degli uomini e del potere, e ci accompagna con onestà intellettuale, senza sentimenti di condanna e senza cadere nella trappola della compassione, in quella che è di fatto una presa di coscienza, per quanto corrotta e distorta da incubi mostruosi e folli illusioni. Qui siamo oltre i concetti coi quali siamo abituati a confrontarci quando parliamo di sterminio, genocidio, pulizia etnica (“banalità del male”, “zona grigia”, il più rassicurante “follia”). The Act of Killing spalanca le porte dell’abisso, senza mostrarci una sola goccia di vero sangue, senza l’utilizzo di una sola immagine di repertorio, senza forzare il discorso in alcuna direzione, e ci costringe a interrogarci sulla realtà sotto ogni suo aspetto: morale, politico, economico, sociale, storico. Una complessità, una ricchezza e una prospettiva con le quali qualunque documentarista degno di tale nome sarà in futuro obbligato a confrontarsi.
IL CAPITALE UMANO di Paolo Virzì, Italia, 2014¶
Scriviamo queste righe sull’ultimo film di Paolo Virzì mentre La grande bellezza di Paolo Sorrentino, dopo avere vinto il Golden Globe, è ufficialmente entrato a far parte della cinquina di pellicole che concorreranno all’Oscar per il miglior film straniero. Lo precisiamo perchè sui maggiori quotidiani nazionali e su vari siti e blog consultabili in rete (specializzati e non) è cominciato improvvisamente a montare una sorta di tifo da stadio per il candidato italiano come se a febbraio a Los Angeles l’Italia dovesse giocare la finale della coppa del mondo di calcio. L’onda di questo becero e provinciale entusiasmo, di fatto funzionale a trasformare il possibile evento in ennesima occasione per celebrare la sempre ritrovata unità nazionale, sta investendo di riflesso il cinema italiano nel suo complesso. In particolare, Il capitale umano di Virzì, uscito nelle sale da circa una settimana, viene sostanzialmente definito come capolavoro, ulteriore esempio di cinema italiano di qualità, di sinistra, impegnato, ma accessibile. La premessa è dunque giustificata dal fatto che in questo particolare momento, non unirsi al coro degli entusiasti sostenitori di un presunto nuovo grande “cinema italiano”, come in verità intendiamo fare, rischia di passare per una provocazione, mentre niente potrebbe interessarci di meno.
In prima linea, a spingere sul concetto di “capolavoro” applicato a Il capitale umano niente meno che Repubblica, il quotidiano-partito che del film ne ha prima tessuto le lodi con un’intervista di Natalia Aspesi al suo autore, e in seguito ne ha sottolineato la bellezza attraverso una recensione di Concita De Gregorio. Come se non bastasse, la stessa De Gregorio, ha poi ospitato Virzì nella sua trasmissione televisiva su raitre, in modo che anche i non lettori di Repubblica potessere scoprire l’esistenza del nuovo straordinario film italiano. A ruota, sono poi seguiti tutti gli altri (giusto per citare un nome, segnaliamo le brevi ma intense righe scritte da Gad Lerner sul suo blog). Ci siamo così chiesti: “Cosa ci sarà mai di così eccezionale ne Il capitale umano, da provocare tanta sponsorizzazione”? Siamo andati al cinema e in tutta sincerità non vi abbiamo trovato nulla di particolarmente rilevante, tanto sul piano del linguaggio cinematografico quanto su quello dei temi affrontati.L’incredibile fortuna critica del film, secondo noi risiede nel fatto che la pellicola, oltre a essere innegabilmente ben confezionata, risponde perfettamente ai bisogni di quella grossa fetta di pubblico moderatamente colto, moderatamente sensibile, moderatamente informato, ferocemente alla ricerca di conferme, che generalizzando un po’ potremmo identificare con la cosiddetta “società civile”. Quel pubblico, per intenderci, che non andrebbe mai al cinema a vedere un film dei fratelli Vanzina, di Neri Parenti e nemmeno di Dario Argento. Anche in questo bisogna dare atto a Virzì di avere senza dubbio centrato il bersaglio.
Onde evitare di allungare ulteriormente il brodo, tralasciamo gli innocui attacchi a Virzì partiti da Libero e da Il giornale, a sostegno dei politici brianzoli offesi dall’ambientazione scelta dal regista livornese (attacchi che altro non rappresentano se non l’altra faccia della stessa medaglia), e andiamo direttamente al film. Un immobiliarista sull’orlo del fallimento (Dino Ossola, interpretato da Fabrizio Bentivoglio) approfitta del fidanzamento della figlia Serena con il rampollo di un ricchissimo e spietato uomo d’affari (Giovanni Bernaschi, interpretato da Fabrizio Gifuni) per tentare il colpaccio: entrare con una quota di capitale in un fondo finanziario che promette guadagni da sogno. Da qui tutta una serie di intrecci fra le due famiglie, con relativi drammi e colpi di scena.
Secondo le parole dello stesso Virzì, all’origine della sua opera, tratta dall’omonimo romanzo di Stephan Amidon, ci sarebbe l’analogia fra la storia originale ambientata nel Connecticut e l’attuale condizione economica e sociale italiana: “Quei personaggi, quella vicenda, ci sono apparsi subito come emblematici di questo nostro momento, anche in Italia: la ricchezza che non trae origine dal lavoro, ma dalle più spregiudicate speculazioni finanziarie, le speranze mal riposte di elevazione sociale, l’ansia procurata dal denaro, una generazione di figli costretti a pagare il prezzo più alto in termini di felicità, a causa della spasmodica ambizione dei loro genitori, o della loro frustrazione”.
Nulla da eccepire. Il problema è la realizzazione in immagini di quanto scritto sopra. Intendiamoci, il film è ben girato e in alcuni casi anche ben interpretato. Le tensione è quasi sempre alta, e l’intreccio sceneggiato con cura. Insomma, Il capitale umano è senza dubbio un buon prodotto cinematografico. Il punto è che non è molto più di questo; certamente, non ci troviamo di fronte a un capolavoro. Intanto, alcune scene risultano quantomeno deboli, quando non addirittura irritanti. Ci riferiamo per esempio alla riunione del consiglio d’amministrazione del teatro che la moglie di Bernaschi (interpretata da Valeria Bruni-Tedeschi) vorrebbe fare rinascere, in cui tutti i partecipanti sono talmente stereotipati e improbabili da farci desiderare che tutto sommato forse è meglio che il teatro resti chiuso; oppure alla scena dell’amplesso fra Valeria Bruni-Tedeschi e Luigi Lo Cascio, che si consuma nel corso della proiezione casalinga del dvd di Nostra signora dei turchi, riuscendo nella non difficile impresa di mortificare tanto la passione per il teatro del professore interpretato da Lo Cascio quanto Carmelo Bene, qui infatti banalmente utilizzato come paradigma dell’artista d’avanguardia, icona e rifugio, come pare suggerirci bonariamente Virzì, per falliti e pseudointellettuali.
Più in generale però, data la dichiarata ambizione del film di restituire allo spettatore un riflesso dell’Italia di oggi, quello di cui maggiormente si sente la mancanza ne Il capitale umano è la forza di affondare i colpi, quella crudeltà nelle descrizioni della società che in un lontano passato aveva reso unica la commedia all’italiana. Tutto il film è un continuo e costante lavoro ai fianchi, una lunga attesa del liberatorio pugno da KO, che però non arriva mai. E’ vero, tutti gli adulti alla fine risultano meschini, o quantomeno inadeguati al loro ruolo. Ma la realtà è molto più dura di quella mostrata da Virzì. Per riuscire a rendere il quadro più intenso, più profondo, più vero, per parlare di capolavoro del cinema serviva almeno una qualità di cui questo film è sprovvisto: il coraggio. Il coraggio di non fermarsi alla superficie delle cose, di svelare, a costo di risultare scomodi, e per una volta non concilianti o accomodanti. Perchè è una pia illusione quella di immaginare un possibile futuro riponendo ogni speranza nella presunta innocenza e umanità dei figli rispetto ai loro genitori. E’ un’illusione ed è un falso, ma è proprio questo che andrebbe mostrato. Perchè la verità, la crudele verità, è che per quei due giovani, in questa Italia non esiste alcun futuro. Ed è solo nella ribellione a questo orrendo stato di cose che si può intravedere una speranza, con tutte le scomode conseguenze che ciò comporterebbe. Qui invece i figli traditi e letteralmente venduti dai loro squallidi genitori lasciano intravedere una luce in fondo al tunnel perché, almeno loro, si amano. Un po’ poco, ma quanto basta per far sì che il cerchio si chiuda: i cattivi, responsabili dello sfascio, si collocano nell’altro da sé, gli speculatori di borsa e i genitori senza scrupoli; all’altro capo del filo i buoni, la parte positiva, ovvero i figli abbandonati, le vittime “innocenti”. Sì, certo, di quei ragazzi immaginati da Virzì magari uno su mille ce la farà, ma gli altri 999? Dei “cretini”, direbbe Brunetta. Per un film che si vorrebbe capolavoro, troppo semplice cavarsela con i buoni sentimenti. I Monicelli e i Risi, da qualcuno impropriamente richiamati e citati come modelli, possedevano ben altra stoffa, e sapevano, loro sì, essere feroci. “Ho ucciso mio padre, mangiato carne umana, tremo di gioia” si spingeva a dire Pierre Clementi in Porcile di Pasolini. Sia chiaro, non è che si rimproveri a Paolo Virzì di non essere Pasolini, ma qualcosa di più della morale sulla forza dell’amore era lecito aspettarselo.
La sensazione che resta al termine della visione, è che in verità Virzì sia troppo distante dai problemi che mette in scena per essere davvero credibile. Il capitale umano ci mostra la deriva italiana proprio come la potrebbe raccontare un qualsiasi politicante del PD che si dichiari di sinistra, e viceversa. E se l’effetto consolatorio farà dormire per una notte il sonno dei giusti a buona parte degli spettatori, per la restante parte questo effetto non potrà che provocare una specie di nausea. Ci riesce allora più chiaro comprendere, alla luce di questo film, il motivo per cui nemmeno 2 mesi fa lo stesso Virzì, al festival del cinema di Torino, si espresse (con sorpresa di molti) con parole di profondo disprezzo nei confronti di Ken Loach, che nello stesso festival l’anno precedente aveva rifiutato di ritirare il premio conferitogli come gesto di solidarietà nei confronti dei giovani lavoratori licenziati dalla cooperativa che gestisce, fra le altre cose, il museo del cinema. Quel gesto, per quanto simbolico, apriva un piccolo squarcio di realtà, rovinava per un secondo la festa, e metteva per un istante in discussione i ruoli. Un gesto però intollerabile, perché i ruoli per Virzì, evidentemente, non vanno confusi. Va bene l’amore, ma il regista faccia il regista, il precario faccia il precario, il licenziato faccia il licenziato. E che nessuno rompa i coglioni, soprattutto al cinema.
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