Hacking Cyborgs
Misurazioni di massa
Venerdì 28 agosto 2015, quartier generale di Facebook: superato il
miliardo di utenti connessi contemporaneamente. Un miliardo di profili
interagivano con la medesima piattaforma, fornendo dati cruciali per
restituire loro quantità significative. Tanti like, tante notifiche,
tanto valore. La quantificazione delle attività restituisce un valore
numerico che tende a sostituire qualsiasi altro sistema di valutazione.
Un sistema tanto pervasivo di misurazione di massa è fantasmagorico
persino per le ambigue utopie dell’immaginario fantascientifico.
L’intimità, autentica e/o artefatta, viene esposta allo scrutinio degli
algoritmi di un’azienda privata, che sceglie le modalità per presentare
i risultati. Per usare la terminologia di James G. Ballard: lo spazio
interno (inner space) è diventato esterno (outer space), o meglio, i
social network commerciali sono il risultato della misurazione di un
numero straordinario di spazi interni, in continuo aggiornamento (e
crescita).
Forse un miliardo di utenti che interagiscono contemporaneamente con la
piattaforma digitale non sono sufficienti a renderla intelligente, ancor
meno cosciente, ma il sistema nel suo complesso sembra essere
autoregolato e adattivo, oltre che in espansione. Presto integrerà
direttamente Instagram e WhatsApp. Con buona pace degli scandali à la
Cambridge Analytica.
Conosci te stesso attraverso i numeri
Self-knowledge through numbers, recita lo slogan del Quantified Self
quantifiedself.com/ che raduna utenti e produttori di strumenti
per l’automonitoraggio. La società californiana fondata da G. Wolf e K.
Kelly (Wired) per “aiutare le persone a trarre significato dai loro
dati personali” organizza incontri in tutto il mondo. Molte le storie
di successo. C’è chi ha riacquisito forma grazie a un severo programma
di tech wellness e chi ha recuperato piene facoltà dopo gravi
incidenti. I più banali hanno monitorato la propria attività sulla
tastiera, il numero di libri letti, l’alimentazione. Ma i monitoraggi
più diffusi riguardano il funzionamento “automatico” del corpo: attività
cardiaca, pressione, massa grassa, massa magra, temperatura, fasi REM
nel sonno… tutto tramite strumenti dotati di sensori di
auto-monitoraggio.
Non mancano i test per valutare (quantificare) le proprie capacità
cognitive e cercare di migliorare le proprie prestazioni. La fase
successiva alla raccolta è il racconto e la condivisione di questi dati
con altre persone coinvolte nell’auto-osservazione. Il Quantified self
(QS) evidenzia in maniera paradossale il funzionamento dell’informatica
commerciale di massa.
S’impone una visione del mondo informazionalista, secondo cui la vita
degli organismi coincide con la produzione di segni, da interpretare
come informazioni e immagazzinare come dati. In questo senso gli utenti
delle piattaforme commerciali accettano di farsi merce e regalano sé
stessi sotto forma di segni, aspettando un responso oracolare capace di
chiarirne il senso. Ma come si fa a dare un senso ai dati, ai numeri? La
modalità più semplice sembra essere quella di rendere visibile un
presunto significato invisibile attraverso mappe e grafici, ma anche
elaborazioni artistiche multimediali. Operazione estetica in senso
letterale, che restituisce sensazioni (aisthesis) estratte dai dati,
perlopiù sensazioni visive.
Operazione intrinsecamente metafisica, al di là della fisica e della
materia, qualsiasi cosa sia, perché presuppone un significato nascosto,
al di là, e mira a svelare, a squarciare il velo di Maya dell’apparenza
e a mostrarne una presunta essenza: il presupposto metafisico è: ciò che
sta dentro il corpo è la verità del Sé (ed è misurabile! Si può
quantificare, vendere e comprare!). Conoscere quella verità consente di
modificarsi seguendo un programma di allenamento, esercizi di
ripetizione in vista di uno scopo. Il miglioramento prestazionale sembra
essere uno degli obiettivi più ricorrenti. Ma chi vorrebbe davvero
essere a conoscenza e cosciente in ogni istante del funzionamento del
proprio corpo? E poi siamo sicuri che il corpo sia me? Che le mie
cellule stiano lavorando per me, per farmi vivere… non sarà un po’
antropocentrico come punto di vista?
Naturalmente stiamo parlando di un movimento californiano di tecnocrati,
gente che vive in un altro mondo, niente a che vedere con la vita
quotidiana al di fuori della Silicon Valley…
Testami
Entri in farmacia. Aspetti il tuo turno, fra gente impaziente di
mostrare la propria ricetta, più o meno distanziata. Tu no, ti serve
solo un antidolorifico generico. Ma conosci bene quella sensazione di
aver bisogno assoluto di un farmaco per risolvere un problema, per
sciogliere il malessere. Ora sai che non è niente di grave, ma hai avuto
bisogno che te lo dicesse il medico, anzi, ti ci è voluta una sfilza di
esami prima di tranquillizzarti, non ti fidavi di quello che sentivi,
volevi ottenere il responso delle macchine, recitato da esperti in grado
di interpretare cifre, parametri e scarabocchi arcani sui referti di
laboratorio. Avevi delle macchioline, nemmeno ti prudevano, e alla fine
sono passate da sole: pitiriasi rosea, una cosa da bambini.
Eppure hai cercato per ore sul web, fra siti allarmistici che ti
pronosticavano un (breve) futuro e una panoplia di altri malanni da
ipocondria galoppante.
Fra i prodotti in mostra sugli scaffali, una serie di test attira la tua
attenzione. Sono test per qualsiasi cosa: per ferro, allergeni e
celiachia; per tetano e tiroide, helicobapter e colesterolo, albumina
renale e trigliceridi, funzionalità prostatica e intolleranze
alimentari. Primahometest.com propone a ognuno il suo: test di fertilità
per gli uomini e di menopausa per le donne, non è sessismo, sono affari!
Ti sale il desiderio di testarti. Andrò bene, sarò nei parametri
corretti, sarò… normale? Quale sarà l’esito della misurazione? Blu,
tutto bene; rosso, qualcosa non va. Ah, magari si potesse ottenere un
numero, su una scala di riferimento! E magari si potesse farlo
analizzare da un computer in tempo reale, confrontarlo ai test altrui ed
estrapolare un responso preciso sul da farsi. Anzi, invece di dover
prendere una decisione, meglio se agisce direttamente il computer,
guidato infallibilmente sistema della quantificazione, invece di essere
lasciati in balia del banale dato empirico analogico, verificato con i
tuoi fallibili sensi.
Non sono un grafico!
Il soggetto k77 aveva interrotto volontariamente il monitoraggio. In
seguito risultò che non si era trattato di un colpo di testa, ma di una
decisione ponderata; sul momento però gli analisti non sapevano come
interpretare l’accaduto. Una raccolta dati soddisfacente prevedeva di
mantenere in situ ancora per almeno 5 giorni il catetere sottocutaneo,
con relativa piastrina plastica agganciata alla conchiglietta
trasmittente. Il soggetto stesso aveva provveduto a inserirselo
nell’addome tramite ago sterile. L’enzima contenuto nella piastrina
veniva rilasciato nell’interstizio iperdermico; reagiva con il glucosio
presente, ossidandosi. Misurando la velocità di ossidazione,
l’apparecchio determinava la glicemia e la inviava in radiofrequenza al
microinfusore posto sull’altro lato dell’addome del soggetto. La pompa
provvedeva a erogare la quantità di insulina adeguata secondo
l’elaborazione degli algoritmi tarati sulla storia diagnostica del
soggetto.
Era parte di un vasto campione per valutare l’affidabilità del ciclo
completo di gestione cibernetica del diabete, la sindrome ideale per
l’industria biotech e famacologica: pazienti dipendenti dai loro
prodotti sine die e con speranza di vita piuttosto elevata! I dati
venivano inviati tramite connessione criptata e analizzati in tempo
reale dalla squadra tecnica, che controllava da remoto i parametri
vitali del soggetto e l’azione dell’infusore. Tutto procedeva a
meraviglia, non avevano mai dovuto intervenire per rettificare la
perfusione, gli algoritmi integravano i dati in maniera adattiva:
imparavano.
Il sistema infusore-soggetto-conchiglia era compiutamente autoregolato e
non necessitava di intervento esterno, ma naturalmente si sarebbe potuto
controllare anche da remoto. Sistemi analoghi di eteroregolazione erano
già stati estensivamente testati in ambito militare: sacchette di ormoni
impiantati sottocute alle teste di cuoio con adrenalina per l’azione,
dopamina per la gratificazione, serotonina per l’umore e così via. Ma la
somministrazione in quei casi veniva effettuata dal controllo centrale,
dove si analizzavano i parametri vitali dei soggetti e si prendevano le
decisioni. Questa era la prima volta che si chiudeva il circuito “in
locale”, affidando tutto al soggetto. Un cyborg che realizzava la sua
natura di organismo cibernetico regolato per via chimica. “Alterare le
funzioni del corpo umano per adattarlo all’ambiente extraterrestre
sarebbe più logico che fornirgli un ambiente terrestre nello spazio…
Una possibilità sono i sistemi di controllo di artefatti organici
autoregolati che amplierebbero l’inconscio umano” 1, recita
l’abstract dell’articolo in cui si descrivono per la prima volta i
cyborg.
Sostanze chimiche somministrate in maniera autoregolata per superare la
paura dello spazio profondo e l’angoscia della solitudine, per regolare
il battito cardiaco, abbassare la temperatura corporea, indurre stati di
ipnosi o ibernazione. Ora si sperimentava su larga scala, per adattare
ciascuno al proprio spazio interno, rendere i soggetti conformi a sé
stessi.
Le applicazioni possibili tramite modifica dell’ormone erano
straordinarie. A breve termine, si potevano modificare quelle che
i soggetti percepivano come “emozioni” in base a parametri
predeterminati. A medio termine, moltiplicando i dispositivi di
rilevazione installati sui corpi e confrontandone i dati, probabilmente
si sarebbe potuto far provare le stesse “emozioni” a soggetti diversi,
che avrebbero potuto acquistare l’esperienza di “sentirsi in un certo
modo” in base ai consigli della loro rete sociale. Le prospettive a
lungo termine non erano ancora del tutto chiare, ma era probabile
l’integrazione dei cyborg chimici con protesi sensoriali attive, ad
esempio retine artificiali e rilevatori priopriocettivi (relativi al
posizionamento del corpo nello spazio e allo stato di tensione
muscolare). Si prevedeva una straordinaria quantità di input in attesa
di feedback.
Interrogato sulle ragioni del suo gesto, il soggetto k77 fece scena
muta. In seguito trapelò che si era sentito obbligato a osservare
i grafici dell’andamento della glicemia che si disegnavano sullo schermo
dell’infusore. Era come ipnotizzato da quel flusso, una danza di numeri
che ondeggiava sotto i suoi occhi. Riferì di aver trovato insopportabile
l’idea che quei grafici fossero in effetti la sua vera identità,
l’essenza del suo esistere. Anche se non provava alcuna sofferenza e
anzi confermava di sentirsi perfettamente equilibrato, il soggetto si
era strappato il catetere ancora pieno di enzima. Dichiarò di essersi
sentito “liberato dalla libertà di non scegliere”, imposta all’inizio
del test. Aveva deciso che non era il caso di obbedire, né di comandare,
nemmeno a sé stesso. Ma soprattutto si sentiva preso troppo sul serio.
Voleva diventare un hacker, non un esecutore di ordini che parevano
emanare dal suo corpo.
Pedagogia hacker per cyborg
Noi cyborg siamo abituati, assuefatti alle notifiche dei dispositivi
digitali, vera e propria antropotecnica, addestramento comportamentale
fisico e psichico, studiato per innalzare senza fine le nostre
prestazioni: più amici, più salute, più denaro. Ogni “più” è una
gratificazione chimica, una scarica dopamina che scorre nelle nostre
piste neurali.
Donna Haraway non aveva torto, “nei cyborg non c’è la pulsione a
produrre una teoria totale, c’è un’intima esperienza dei confini, della
loro costruzione e decostruzione” 2. Per imparare a sperimentare
questi limiti, bisogna riprendere l’antica via rinverdita dall’ultimo
Foucault, la cura di sé: valorizzare la propria diversità senza
ricorrere alla misurazione compulsiva.
Ascoltare le proprie emozioni e condividerle con gli altri, anche con le
macchine, e con l’aiuto di altri dispositivi ancora da inventare. La
libertà non si dà con un’innovazione tecnologica che ci solleva dal
problema di scegliere come vivere, ma si costruisce in un processo
quotidiano, fatto di pratiche concrete che possiamo far nostre e
trasmettere.
Forse, un po’ più consapevoli della propria storia, possiamo imparare
come gestire le nostre risorse personali in mondi comuni. Tecnologie
conviviali, insieme alle macchine. Quali sono le procedure che ci
mettono a disagio? Quali ci appassionano, quali ci commuovono? Prima
ancora dei manuali per usare le macchine, delle guide per orientarci
nelle interfacce, cerchiamo di ascoltare le nostre reazioni, di
comprendere cosa ci succede dentro, come manifestiamo le nostre
emozioni. Ci osserviamo e prendiamo nota insieme dei nostri
comportamenti, con sguardo obliquo, antropologico, curioso e partecipe,
ma anche con humor disincantato. Perché andiamo a controllare di
esistere verificando i nostri profili digitali? In che modo effettuiamo
le nostre scelte interattive? Quali meccanismi innescano le emozioni che
ci scuotono?
Questi sono alcuni degli interrogativi che affrontiamo nei laboratori di
pedagogia hacker.
In trasformazione, senza illusioni e senza rimpianti
circex.org/en/news/hacking-cyborgs
NOTE
1: Manfred E . Clynes and Nathan S. Kline, Cyborgs and Space
,“Astronautics”, 1960, pp. 26-27, 74-76
web.mit.edu/digitalapollo/Documents/Cha...
2: Donna Haraway, Manifesto cyborg, Feltrinelli, Milano, 1995
www.egs.edu/faculty/donna-haraway/artic.../