CRITICA DELLA TRANSIZIONE
Contributi per una Transizione Libertaria¶
Indice
- Nota Introduttiva - “Non ha più molto senso discutere…”
- 0. Introduzione - “Allettanti Visioni di Resilienza?”
- 1. Prima Parte - “LA TESTA ovvero Perché l’ inevitabilità del “piccolo” …”
Nota Introduttiva¶
“Non ha più molto senso discutere se le forze che guidano la globalizzazione economica siano inique, ingiuste o distruttrici senza pietà delle culture locali e dell’ ambiente. E’ meglio concentrasi sul “tallone d’ Achille” della globalizzazione, il suo grado di dipendenza dal petrolio, di fronte al quale non esiste altra protezione all’ infuori della resilienza”
(R. Hopkins, Manuale Pratico della Transizione, Introduzione)
Il testo che segue costituisce il tentativo, diciamo l’ abbozzo, di una critica radicale al testo fondamentale del movimento delle Transition Towns.
Il mio approccio a questo testo è stato fin dalle prime pagine diffidente.
Mi sembrava serpeggiasse, tra le righe, un’ ambiguità di fondo che non sono riuscito a dissipare proseguendo oltre con la lettura. Il testo infatti fin dall’ inizio cercava di esulare alcuni problemi che ho sempre ritenuto fondamentali, di critica sociale: innanzitutto, partendo da una prospettiva anarchica, mi insospettiva l’ assoluta mancanza di una critica radicale: come anarchici possiamo accettare tesi non anarchiche, sistemarle per benino e farle nostre? La risposta non è facile. O forse basta non definirsi anarchici e il gioco è fatto. Ma allora rimane il problema di capire chi siamo e di chiarirsi gli obiettivi. E quindi: cosa vogliamo ottenere con la nostra azione? Il nostro progetto mira semplicemente alla costruzione di una comunità locale autosufficiente? Ma autosufficiente rispetto a quali bisogni? E una volta soddisfatti questi ultimi che rimane da fare? Vogliamo coltivare patate e piantare alberi ..e il resto si vedrà? Ma quanto è importante questo “resto” che lasceremmo così nelle mani di un impersonale restare a guardare? E’ possibile costruire un nuovo mondo “un futuro più prolifico e più abbondante”, per usare le parole di Hopkins, senza impegnarsi a distruggere quanto fino ad oggi ha reso il passato e il presente miseri e iniqui?
Lo strumento dell’ analisi costituisce a mio avviso il discriminante per passare da un’ azione ingenua e potenzialmente manipolabile ad un’ azione critica e il più possibile consapevole.
Considerate quanto segue il mio modesto contributo teorico per passare dalla Transizione verso la costruzione del movimento della Transizione Libertaria.
Latina, Venerdì 7 Ottobre 2011
LP
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ALLETTANTI VISIONI DI RESILIENZA?¶
“Scopriremo che anche nella storia degli ominidi la selezione naturale non ha operato con la libertà assoluta di uno scultore che modella la sua opera. L’ evoluzione è piuttosto una questione di riorganizzazioni ingegnose, di riadattamenti occasionali, di imperfezioni che funzionano. In un certo senso siamo una specie serendipica: molte volte nella nostra evoluzione abbiamo scoperto qualcosa di vantaggioso andando alla ricerca di tutt’ altro…”. (Telmo Pievani, Homo sapiens e altre catastrofi, Capitolo secondo)
Il concetto fondamentale della Transizione è quello di resilienza.
Resilienza viene così definita da Rob Hopkins nelle prime parole dell’ introduzione al suo libro “Manuale pratico della Transizione”:
“capacità di qualsiasi sistema, dal singolo individuo a quelli economici, di resistere e di mantenere il proprio funzionamento nonostante un cambiamento o shock subito dall’ esterno”
A parte l’ ambiguo cenno iniziale, che associa individuo e sistemi economici nel concetto di sistema qualunque, dovrebbe essere chiaro già dalle prime parole che per resilienza si può intendere anche la capacità di resistere, da parte dell’ attuale sistema economico, sociale e culturale, a spinte e sollecitazioni violente, provenienti ad esempio da chi da questo sistema è escluso (oppressi, emarginati) e da chi non ne accetta l’ inclusione forzata (contestatori, ribelli), a partire da condizioni favorevoli per la realizzazione efficace di tali eventi (aumento della conflittualità sociale).
Se infatti per rivoluzione si intende una rottura irrimediabile, che porta il sistema al collasso definitivo, la resilienza è invece esplicitamente definita come capacità di adattamento del sistema a fronteggiare cambiamenti radicali e “mantenere il proprio funzionamento nonostante” questi eventi.
Rivoluzione e resilienza, per lo meno se contemporaneamente applicate allo stesso sistema, sembrano dunque concetti incompatibili, avvicinandosi quest’ ultimo invece al concetto di riforma, di cui potrebbe incarnare la versione più aggiornata prodotta dal pensiero borghese.
Di fronte all’ annuncio di un’ imminente catastrofe sistemica di natura economica (picco del petrolio) e/o ecologica (cambiamenti climatici) non rimane altro da fare, sembra dirci l’ autore, che adattarsi, per tirare a campare al meglio possibile. Si tratta di adattarsi dunque alla fine catastrofica del sistema produttivo globale e/o alle sue devastanti conseguenze ambientali, e adattarsi pro-attivamente, con entusiasmo e voglia di fare, ma sempre a seguito di eventi esterni che si subiscono come necessità. Non tutto il male viene per nuocere, insomma.
“La fine dell’ era del petrolio economico si sta avvicinando rapidamente e il nostro stile di vita cambierà radicalmente, che lo vogliamo o no.”
Il discorso, da un punto di vista retorico, è efficace nella sua ambiguità: l’ apocalittica legata alla catastrofe sistemica di natura economica (“il picco del petrolio sta per arrivare o forse è già arrivato…”) si unisce all’ altra, alternativa, di natura ecologica (legata ai cambiamenti climatici) nella proposta unificante di salvare capra e cavoli riducendo in ogni caso, individualmente e localmente, le emissioni di CO2 (e modificando quindi il nostro stile di vita) in maniera preventiva.
In realtà se il picco del petrolio si verificasse davvero, la riduzione di CO2 ne sarebbe una conseguenza logica mentre viceversa se questo fenomeno non accadesse o fosse comunque ridimensionato nelle sue conseguenze economiche sulla produzione, dalla scoperta di una nuova fonte energetica analoga o quant’ altro permetta di mantenere a regime l’ attuale sistema produttivo, sarebbe il problema ecologico ad assumere priorità emergente: considerare entrambe queste ipotesi come reali e ugualmente probabili permette di ritenere la proposta della resilienza comunque valida attraverso la percezione (non necessariamente reale) dell’ imminenza anche solo di una delle due ipotesi, e così non facilmente smentibile nel breve periodo.
La strategia retorico/comunicativa può essere così riassunta: formulate in un unico asserto composto, due ipotesi plausibili in disgiunzione debole1 dalle quali segue come conseguenza un evento negativo (la distruzione dell’ attuale sistema), si progetta tutti insieme un’ azione preventiva che minimizzi i danni dell’ evento stesso.
Dal punto di vista resiliente questo potrebbe significare due cose:
a) adattare preventivamente il sistema “individuo e piccola comunità locale” al crollo della produzione legata al petrolio del sistema economico-produttivo globale. In questo primo caso lo shock è causato dal sistema economico, visto come ambiente esterno rispetto l’ individuo e la comunità locale che sono invece i sistemi resilienti (microanalisi).
b) adattare preventivamente il sistema economico-politico globale alla “carestia energetica” che deriva da un impoverimento delle risorse ambientali (in questo secondo caso lo shock sarebbe prodotto dall’ ambiente esterno) trasformando i bisogni di consumo del sistema stesso a partire da individui e piccole comunità locali considerati in questo secondo caso parti interne del sistema (macroanalisi).
A e B sono chiaramente compatibili nella misura in cui rappresentano due diverse direzioni di analisi (dal basso verso l’ alto o dall’ alto verso il basso) di una stessa realtà, di uno stesso sistema che si vuole salvaguardare.
“Le Iniziative per la Transizione, da sole, non possono essere le risposte al picco del petrolio e ai cambiamenti climatici; ogni coerente risposta nazionale avrà anche bisogno di risposte governative ed economiche ad ogni livello”
Secondo questa linea di lettura, in altre parole, la resilienza sarebbe un’ azione strategica a più livelli che permetterebbe da una parte alle singole cellule del sistema (comunità locali) di riorganizzare dal basso un’ attività economica sostenibile e preparsi a gestire l’ impatto emotivo a fronte di uno shock economico serio proveniente dall’ organismo; dall’ altra al sistema stesso di riorganizzare il suo metabolismo per far fronte ad un cambiamento ambientale tale da mettere a repentaglio la capacità del sistema di procacciarsi nutrimento (energia).
Un’ importante componente di questa strategia è l’ attenzione all’ aspetto emotivo delle singole cellule del sistema.
“se non riusciremo a creare questo senso di esaltazione, di anticipazione dei problemi, di voglia collettiva di partecipare a un’ avventura su vasta scala, ogni risposta governativa sarà destinata al fallimento, oppure dovrà lottare continuamente contro la volontà del popolo. Immaginate, invece, cosa potrebbe succedere se si riuscisse a creare un sentimento di impegno positivo e di volontà di scrivere una nuova e diversa storia per trovare una soluzione positiva, anche a livello nazionale.”
E’ chiaramente fondamentale, a questo livello di analisi (dal basso verso l’ alto: è di questo che si occupa il manuale) che le singole componenti del sistema siano armoniche rispetto al fine da raggiungere da parte del sistema stesso e che non si accentuino invece conflittualità e lotte intestine contro il potere (anarchiche) che avrebbero come effetto quello di attaccare anche dall’ interno un sistema già indebolito rispetto al suo habitat (ambiente naturale).
La probabilità e la pericolosità di queste lotte cresce nella misura in cui il sistema, per garantirsi la sopravvivenza in un momento critico, deve necessariamente aumentare le sue difese immunitarie (controllo, repressione, misure di difesa preventive ..) e quindi esercitare con più efficacia possibile il potere nei confronti di qualsiasi fenomeno di dissenso interno. Queste lotte infatti, essendo per loro natura dirette contro il potere tendono a manifestarsi e inasprirsi proprio laddove la repressione viene esercitata con più evidenza.
Il pericolo, in altre parole, è che il sistema, dovendo fronteggiare un collasso economico dovuto a motivazioni ecologiche, metta in atto una riorganizzazione interna volta alla massima efficienza che però, se gestita in maniera rigida, autoritaria, può generare dal basso l’ esplosione di una serie di focolai (rivolte spontanee) motivate da un senso di insoddisfazione, di insofferenza e rabbia, che porterebbero il sistema stesso nel panico e, almeno potenzialmente, potrebbero condurlo comunque alla morte (insurrezione generale).
“Come dovrebbe essere una campagna ambientalista, per generare questo stato di esaltazione, invece di creare sensi di colpa, di rabbia e di orrore ...?”
Occorre dunque una strategia efficace, dolce, basata su principi deboli proprio per evitare una contrapposizione radicale all’ interno del sistema.
Si inventa un nuovo tipo repressivo, un nuovo progetto di repressione “debole”, democratico, basato sulla partecipazione e sul consenso.
Ecco, la resilienza potrebbe essere parte di questo sofisticato strumento di repressione morbida.
1. Prima Parte
“LA TESTA”
ovvero
Perché l’ inevitabilità del “piccolo” viene fatta discendere dal picco del petrolio e dal cambiamento climatico?¶
“quando la produzione di petrolio e di gas comincerà a esaurirsi, il suo razionamento sarà inevitabile: o si predisporrà il razionamento, oppure
l’ accesso all’ energia dipenderà dal reddito, cosa che creerà inevitabilmente tensioni sociali” (R. Hopkins, Manuale Pratico della Transizione, 4, “Dall’ alto verso il basso o dal basso verso l’ alto?””)
“la cosa notevole è il fallimento dei politici nel cominciare a pianificare, in qualunque modo, questa inevitabile transizione, o almeno nel preparare i propri elettori a questo futuro inevitabile” (Jonathan Porritt, Capitalism as if the Earth Matters, cit. in R. Hopkins, Manuale Pratico della Transizione, 1: Quando si verificherà il picco?)
La breve introduzione che apre la prima delle tre parti in cui è divisa l’ opera di Hopkins (chiamate rispettivamente La Testa, Il Cuore, Le mani), inizia sottolineando l’ importanza di evitare “l’ orrore, che si verificherebbe se non facessimo nulla”.
Questo orrore che incombe imminente, dice Hopkins, può essere trasformato in “splendore, derivato da ciò che potremmo ottenere agendo”.
Entrambe queste frasi, da due prospettive diverse, vogliono arrivare allo stesso risultato: spingere all’ azione partendo da due suggestioni emotive opposte e complementari (l’ orrore collegato al rifiutarsi di fare, e lo splendore collegato all’ agire) e dichiarate fin da subito “evidenti”.
Ecco per intero il paragrafo che apre la Prima Parte del libro:
“Viviamo tempi importanti: tempi in cui i cambiamenti sono veloci e in cui l’ orrore, che si verificherebbe se non facessimo nulla, e lo splendore, derivato da ciò che potremmo invece ottenere agendo, sono entrambi evidenti”.
Nonostante dunque questa parte del libro sia stata intitolata “Testa” “perché si concentra sui concetti e sulle tematiche principali”, le parole di apertura che dovrebbero introdurre questi concetti e tematiche fanno preventivamente appello all’ emozione, liquidando come auto-evidenti le conseguenze emotive associate al cosa fare, prima ancora di avere detto cosa fare e soprattutto perché farlo.
Subito dopo questo preambolo emotivo, comunque, l’ autore inizia effettivamente la sua analisi razionale in maniera molto chiara, esplicitando nientemeno che la premessa fondamentale su cui si basa
l’ intero libro:
“Questo libro si basa su una semplice premessa: la fine di quella che chiamiamo “l’ era del petrolio economico” –cominciata nel 1859 e arrivata fino ai giorni nostri- è vicinissima”.
In altre parole, si parte da un “fatto”: la società industriale ha praticamente esaurito le fonti di approviggionamento energetico necessarie per mantenere a pieno regime il funzionamento della macchina economica, che rischia, dunque, di fermarsi per sempre.
Che significa questo? Proviamo per un attimo a immaginarlo insieme:
“Facciamo a questo punto uno sforzo di immaginazione e ipotizziamo una crisi catastrofica e irreversibile del sistema economico con tutte le sue logiche conseguenze: blackout elettrico di lunga durata, blocco dei trasporti, scarsità di cibo, niente gas per cucinare e riscaldarsi, acquedotti compromessi, l’ esercito per le strade, guerra di tutti contro tutti.
Come vi sentireste al solo pensiero di trovarvi in un caos generalizzato e senza più certezze, senza più agi? Quali soluzioni vi prospettereste? Cosa fareste concretamente per rimanere vivi?” (Carmine Mangone, La qualità dell’ Ingovernabile, 7)
L’ inevitabilità di una crisi energetica in un’ economia globale e centralizzata è uno dei punti chiave della critica di Hopkins, che non riguarda tanto la fonte di energia in sé, come a prima vista potrebbe sembrare, ma l’ organizzazione sistemica dell’ economia stessa. E’ qui che la considerazione ambientale, altro principio fondamentale della Transizione, entra in gioco. Anche ammettendo infatti la possibilità di una fonte alternativa (magari anche più efficiente del petrolio stesso) rimarrebbe in ogni caso il problema dell’ attuale gestione centralizzata dell’ energia; gestione che resta troppo poco flessibile per adattarsi, in tempi adeguati, a possibili periodi di crisi e tensione sociale. Hopkins in un certo senso non sta affrontando il problema della crisi economica direttamente, dal punto di vista della soluzione immediata, ma pone la sua analisi ad un livello strategicamente più alto: in cui non si tratta tanto di chiedersi cosa fare (o almeno non subito) ma innanzitutto di chiedersi perché tutto ciò è successo? E quindi: come evitare che succeda di nuovo?
Sostituire un carburante con un altro, anche più efficiente e (idealmente) non esauribile, non farebbe altro che ottimizzare una struttura economica ritenuta dall’ autore in ogni caso troppo rigida e centralizzata per essere sicura in casi di catastrofe ambientale o politica.
“la controversia del 2000 dei camionisti britannici offre una valida lezione al riguardo. In soli tre giorni l’ economia britannica era stata portata sull’ orlo del baratro; infatti, era evidente che mancava solamente un giorno per arrivare al razionamento del cibo e allo scoppio del malcontento sociale.” (ivi, I,3. Perché ricostruire la resilienza è importante quanto tagliare le emissioni dei gas serra)
Continuando con questa lettura, infatti, il contributo “ecologico” nella proposta della transizione (la preoccupazione cioè per il problema “climatico” nella ricerca di una soluzione per quello energetico) può essere letto anche ad un altro livello che non quello semplicemente ambientalista: il rapporto tra la gestione dell’ energia e l’ impatto di tale gestione sull’ ambiente vale infatti non soltanto ad un livello strettamente ecologico (impatto sull’ ambiente naturale) ma anche ad un livello politico (impatto sull’ ambiente sociale): ed è in questo che in effetti consiste
l’ essenza stessa dell’ idea fondante della Transizione, ovvero nell’ applicazione del concetto ecologico di resilienza ai sistemi economico-sociali.
“In ecologia il termine resilienza si riferisce alla capacità di un ecosistema di continuare a funzionare in presenza di shock esterni e cambiamenti indotti. ... Nel contesto di comunità e di insediamenti si riferisce alla loro capacità di non crollare alle prime avvisaglie di penuria di petrolio e cibo, e alla loro capacità di rispondere al disturbo con processi di adattamento”.
Si tratta dunque di assumere una forma mentis ecologista nel risolvere problemi di natura economica allo scopo di mantenere una certa stabilità politica e sociale nell’ imminenza della crisi: in altre parole di modificare il sistema in modo che questo sia al tempo stesso economicamente flessibile (punto di vista economico/energetico) e politicamente sostenibile (punto di vista socio-ambientale).
Se il picco è la naturale conseguenza di un’ economia basata sullo sfruttamento costante di un’ unica fonte energetica, il problema climatico è invece la lunga ombra che una società non armonica, rispetto all’ ambiente da cui estrae energia, proietta sulla sua economia.
Dobbiamo applicare, a questo punto, una doppia chiave di lettura al discorso della Transizione, che può essere così interpretata anche come una proposta riorganizzativa per uscire dalla spirale dell’ inflazione in cui la società post-industriale è caduta (per motivazioni di cui la scarsità delle materie prime è solo un aspetto) e che si caratterizza come uno stato di “crisi permanente” in cui per mantenersi in vita è costretta ad abbassare costantemente i costi di produzione (diminuzione dei salari, licenziamenti) o ad aumentare costantemente i prezzi, con il risultato di aumentare costantemente il livello di tensione sociale.
Da un punto di vista energetico, infatti, prima ancora del petrolio, è la forza lavoro a costituire la fonte di energia alla base di ogni processo produttivo. Lo sfruttamento di qualsiasi fonte energetica (anche rinnovabile) senza considerazioni sul suo “impatto”, può comportare, a lungo andare, il deterioramento del rapporto di forza che garantisce il dominio sulla fonte energetica stessa, attraverso una retroazione negativa accumulativa che può esplodere da un momento all’ altro arrivando a ribaltare il rapporto di forza stesso e distruggere così il dominio (catastrofe ambientale, rivoluzione). Il problema dell’ uso più efficiente possibile delle risorse energetiche disponibili, dunque, non basta da solo a garantire la stabilità del sistema economico-sociale: è necessario procedere, parallelamente, alla cura dei rapporti di forza tra questo sistema e il suo ambiente, privilegiando il concetto di armonia e subordinando quello di efficienza. Inoltre, e qui il concetto di resilienza si arricchisce di un ulteriore contributo, è inevitabile tenere conto di eventi imprevedebili di natura distruttiva (cataclismi/insurrezioni) che rischiano di compromettere il sistema stesso a partire dal sabotaggio di un suo punto nevralgico.
“le reti globalizzate, spesso esaltate come una delle grandi forze della globalizzazione, possono in effetti anche essere una delle sue grandi debolezze. La natura ipercollegata dei sistemi moderni altamente connessi permette agli shock di viaggiare velocemente al loro interno, con effetti potenzialmente disastrosi. Una struttura maggiormente modulare significa che le parti del sistema possono efficacemente isolarsi, in caso di shock”
(ivi, I,3. Perché ricostruire la resilienza è importante, Le tre caratteristiche di un sistema resiliente)
Viene proposta dunque un’ architettura modulare dei rapporti di forza che costituiscono il dominio, che permetta di mantenere in piedi il sistema anche in questi casi di attacco violento ad alcune delle sue parti.
Questa modularità si attua sia in maniera orizzontale: attraverso l’ indipendenza dei singoli centri produttivi del sistema (modularità economica), sia in maniera verticale: attraverso una strutturazione “scalare” dell’ autorità, che garantisca continuità tra i vari livelli gerarchici in cui è strutturato il sistema politico: locale, nazionale, internazionale (modularità politica). Tutto ciò permette di ottenere quella flessibilità economica e quella sostenibilità politica necessarie a rendere resiliente il sistema rispetto ad un qualsiasi evento violento volto a distruggerlo.
Per ottenere tutto questo viene rovesciata la prospettiva classica del dominio autoritario (che non garantisce sufficiente armonia ambientale nell’ utilizzo dell’ energia) e coinvolta invece la base del sistema nella ristrutturazione del sistema di dominio stesso, a partire dal basso.
Ed ecco che questa inevitabilità del “piccolo” (inevitabilià di una riorganizzazione produttiva dal basso per rispondere a problemi di inflazione crescente) viene attuata attraverso argomentazioni volte all’ azione partecipativa delle comunità: il picco del petrolio e il cambiamento climatico, prese alla lettera, sono le proposte divulgative della Transizione. Così, laddove la maggior parte delle persone che leggono o sentono parlare di picco del petrolio capiscono che si sta parlando di non utilizzare il petrolio perché è finito e perché “alla fine senza si vive meglio”, i governi capiscono che si sta parlando di aggiustamenti progressivi di fronte alle sollecitazioni inflazionistiche interne ed esterne (di cui l’ aumento del prezzo del petrolio è solo un esempio); e laddove le persone sentono parlare di cambiamento climatico e impatto ambientale e capiscono che si sta parlando di riorganizzare la produzione allo scopo di mangiare, bere e respirare meglio, i governi leggono di abbassamento della tensione e della conflittualità sociale attraverso la decentralizzazione delle strutture produttive ed organizzative (compresi fisco, contabilità ecc.); laddove le persone, parlando di resilienza, intendono l’ autosufficienza delle comunità locali, i governi ci leggono la massima flessibilità possibile della produzione. Laddove gli uni parlano di diversità, modularità e restringimento delle retroazioni come i tre elementi di un ecosistema resiliente (vedi: ivi, I,3. Perché ricostruire la resilienza è importante, Le tre caratteristiche di un sistema resiliente), i governi ci leggono la necessità di: pluralismo produttivo (per connettersi efficacemente con una situazione politica a struttura democratica); ristrutturazione organizzativa (che inglobi i rischi al suo interno attraverso la suddivisione all’ infinito delle unità produttive), massima flessibilità (per riuscire ad adattarsi efficacemente ad una situazione di perenne instabilità e turbolenza). In definitiva: dove la gente legge di Transizione e ci vede la proposta per un mondo migliore, i governi ci vedono un modello valido e praticabile (sebbene non l’ unico e non necessariamente il migliore) di ristrutturazione post-industriale.
“una volta ho avuto una conversazione con un anziano signore incontrato in un pub, durante la quale pensavo che stessimo parlando di picco del petrolio. Mentre gli esponevo il mio punto di vista sull’ argomento, lui mi interrompeva saltuariamente con innocue interiezioni; alla fine ritenevo che la chiacchierata avesse prodotto qualcosa di interessante. Egli, però, chiuse il discorso a sorpresa con questa frase: “Sì, le ho cucinate anche io, queste cose, una volta; vengono bene”.
Le mani (lavori in corso).¶
Quando parliamo di Transizione, sia essa Hopkinsiana o Libertaria, non ci si riferisce ad un preciso pacchetto di soluzioni teorico-pratiche preconfezionate: da questo punto di vista, i movimenti degli ultimi decenni si sono per lo più comportati dando per scontati, di fatto, svariati aspetti che sono alla base dell’organizzazione sociale in cui viviamo e dai cui, ci piaccia o no, derivano tutte le problematiche più “alte” con cui abbiamo a che fare nella quotidianità.
«Un tempo cacciavamo e raccoglievamo quel che mangiavamo, oggi mangiamo prodotti agricoli, e né la bomba atomica, né Internet hanno cambieto questo fatto basilare.» (Peter Lamborn Wilson, “Avant Gardening”)
Per Transizione s’intende, quindi, un approccio teso in primo luogo a destrutturare le connessioni tra i vari sistemi peculiari dell’era che Hopkins definisce “dell’energia a buon mercato”, per ricostruire, secondo (anche) i principi della permacultura, sistemi distribuiti, più orizzontali e in grado, per le loro funzioni primarie, di autosostentarsi.
Come illustrato nelle precedenti sezioni, tuttavia, questa ristrutturazione si intreccia (anche, non solo) con canali più istituzionali, quando non direttamente con le istituzioni stesse. Le Città di Transizione, del resto, non sono soggetti nuovi, nati tra gli interstizi del sistema industriale: esse sono, spesso e volentieri, riorganizzazioni di veri e propri Comuni (vedasi Monteveglio, BO) o comunque di gruppi la cui priorità pratica è lavorare fianco a fianco con le istituzioni.
In uno scenario di crisi delle istituzioni, dunque, l’intervento della Transizione, per come si è manifestata finora, risulta come una tattica più “evoluta”, “democratica” e “resiliente” per permettere al dominio delle istituzioni di continuare nel suo intento.
Dal momento in si comincia a parlare di Transizione Libertaria, risulta palese di come l’intento sia di recuperare l’approccio permaculturale tipico della Transizione (ed in piena sintonia con una visione armoniosa dell’esistente) per poterlo innestare all’interno di pratiche più libertarie ed, infine, anarchiche.
(…continua)
Questa è la prima parte di un contributo che pubblicherò a puntate, qui su riseup. |
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E’ tutto qui. Certo è che se la macchina del controllo utilizzasse il principio di resilienza sarebbe per farne beneficiare il SUO sistema. Si tratta, pertanto, di uno strumento. Utilizzare i principi di resilienza per quelli che sono i nostri modi di vedere la vita e la convivenza sarà il modo per generare un sistema radicalmente diverso. Sono contento, comunque, di questa analisi critica: cerchiamo di cavare fuori dalle Transition Towns tutte le pratiche che ci possono tornare utili (che non sono poche!). Lasciamo a loro, poi, l’istituzionalismo e la gerarchia tipicamente anglosassone ;) |
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pubblicata la seconda parte. si attendono commenti, contributi, critiche … |
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Mi piace! Ha un fine forse un po’ tronca. Vorrei scrivere un capitolo chiamandolo “resilienza di movimento”, cominciando quindi a innestare tematiche più libertarie intorno alle giuste critiche alla Transizione. |
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sì in effetti finisce in modo un po’ brusco.. quello che segue però riprenderà molto il resto quindi si tratta di una non-fine (come piace a noi ;) … |
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benissimo gab! |
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mi sono permesso di fare qualche piccola correzione che secondo me rende più fluido il discorso. vedi se ti piace, se no, ri risistema. ps: non si capisce bene cosa intendi per problematiche “più alte” (anche se intuisco di aver capito, ovviamente) io espliciterei meglio (magari se ci metti la citazione la cosa si chiarisce da sé?) |
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ancora: andrebbe meglio specificato cosa intendi per “sistemi peculiari” |
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