L’INVISIBILE POPOLO DEI NUOVI POVERI
di Marco Revelli
13 dic 2013
Torino è stata l’epicentro della cosiddetta “rivolta dei forconi”, almeno fino o ieri. Torino è anche la mia città.
Così sono uscito di casa e sono andato a cercarla, la rivolta, perché come diceva il protagonista di un vecchio film, degli anni ’70,
ambientato al tempo della rivoluzione francese, «se ‘un si va, ‘un si vede…».
Bene, devo dirlo sinceramente: quello che ho visto, al primo colpod’occhio, non mi è sembrata una massa di fascisti.
E nemmeno di teppisti di qualche clan sportivo. E nemmeno di mafiosi o camorristi, o di evasori impuniti.
La prima impressione, superficiale, epidermica, fisiognomica – il colore e la foggia dei vestiti, l’espressione dei visi, il modo di muoversi -, è stata quella di una massa di poveri.
Forse meglio: di “impoveriti”. Le tante facce della povertà, oggi. Soprattutto di quella nuova.
Potremmo dire del ceto medio impoverito: gli indebitati, gli esodati, i falliti o sull’orlo del fallimento,
piccoli commercianti strangolati dalle ingiunzioni a rientrare dallo scoperto, o già costretti alla chiusura,
artigiani con le cartelle di equitalia e il fido tagliato, autotrasportatori, “padroncini”, con l’assicurazione in scadenza e senza i soldi per pagarla,
disoccupati di lungo o di breve corso, ex muratori, ex manovali, ex impiegati, ex magazzinieri,
ex titolari di partite iva divenute insostenibili, precari non rinnovati per la riforma Fornero, lavoratori a termine senza più termini,
espulsi dai cantieri edili fermi, o dalle boîte chiuse.
Le fasce marginali di ogni categoria produttiva, quelle “al limite” o già cadute fuori, fino a un paio di anni fa ancora sottili, oggi in rapida, forse vertiginosa espansione…
Intorno, la piazza a cerchio, con tutti i negozi chiusi, le serrande abbassate a fare un muro grigio come quella folla.
E la “gente”, chiusa nelle auto bloccate da un filtro non asfissiante ma sufficiente a generare disagio, anch’essa presa dai propri problemi,
a guardarli – almeno in quella prima fase – con un certo rispetto, mi è parso.
Come quando ci si ferma per un funerale. E si pensa «potrebbe toccare a me…».
Loro alzavano il pollice – non l’indice, il pollice – come a dire «ci siamo ancora»,
dalle macchine qualcuno rispondeva con lo stesso gesto, e un sorriso mesto come a chiedere «fino a quando?».
Altra comunicazione non c’era: la “piattaforma”, potremmo dire, il comun denominatore che li univa era esilissimo, ridotto all’osso.
L’unico volantino che mostravano diceva «Siamo ITALIANI», a caratteri cubitali, «Fermiamo l’ITALIA».
E l’unica frase che ripetevano era: «Non ce la facciamo più».
Ecco, se un dato sociologico comunicavano era questo: erano quelli che non ce la fanno più.
Eterogenei in tutto, folla solitaria per costituzione materiale, ma accomunati da quell’unico, terminale stato di emergenza.
E da una viscerale, profonda, costitutiva, antropologica estraneità/ostilità alla politica.
Non erano una scheggia di mondo politico virulentizzata. Erano un pezzo di società disgregata.
E sarebbe un errore imperdonabile liquidare tutto questo come prodotto di una destra golpista o di un populismo radicale.
C’erano, tra loro quelli di Forza nuova, certo che c’erano. Come c’erano gli ultras di entrambe le squadre.
E i cultori della violenza per vocazione, o per frustrazione personale o sociale.
C’era di tutto, perché quando un contenitore sociale si rompe e lascia fuoriuscire il proprio liquido infiammabile, gli incendiari vanno a nozze.
Ma non è quella la cifra che spiega il fenomeno. Non s’innesca così una mobilitazione tanto ampia, diversificata, multiforme come quella che si è vista Torino.
La domanda vera è chiedersi perché proprio qui si è materializzato questo “popolo” fino a ieri invisibile.
E una protesta altrove puntiforme e selettiva ha assunto carattere di massa…
Perché Torino è stata la “capitale dei forconi”? Intanto perché qui già esisteva un nucleo coeso – gli ambulanti di Parta Palazzo,
i cosiddetti “mercatali”, in agitazione da tempo – che ha funzionato come principio organizzativo e detonatore della protesta, in grado di ramificarla e promuoverla capillarmente.
Ma soprattutto perché Torino è la città più impoverita del Nord. Quella in cui la discontinuità prodotta dalla crisi è stata più violenta.
Parlano le cifre.
Con i suoi quasi 4000 provvedimenti esecutivi nel 2012 (circa il 30% in più rispetto all’anno precedente, uno ogni 360 abitanti come certifica il Ministero),
Torino è stata definita la “capitale degli sfratti”.
Per la maggior parte dovuti a “morosità incolpevole”, il caso cioè che si verifica «quando, in seguito alla perdita del lavoro o alla chiusura di un’attività,
l’inquilino non può più permettersi di pagare l’affitto».
E altri 1000 si preannunciano, come ha denunciato il vescovo Nosiglia, per gli inquilini delle case popolari
che hanno ricevuto l’intimazione a pagare almeno i 40 euro mensili imposti da una recente legge regionale anche a chi è classificato “incolpevole” e che non se lo possono permettere.
“Maglia nera” anche per le attività commerciali: nei primi due mesi dell’anno hanno chiuso 306 negozi (il 2% degli esistenti, 15 al giorno) in città,
e 626 in provincia (di cui 344 tra bar e ristoranti). E’ l’ultima statistica disponibile, ma si può presupporre che nei mesi successivi il ritmo non sia rallentato.
Altri quasi 1500 erano “morti” l’anno prima.
Mentre per le piccole imprese (la cui morìa ha marciato nel 2012 al ritmo di 1000 chiusure al giorno in Italia)
Torino si contende con il Nord-est (altra area calda della rivolta dei “forconi”) la testa della classifica,
con le sue 16.000 imprese scomparse nell’anno, cresciute ancora nel primo bimestre del 2013 del 6% rispetto al periodo equivalente dell’anno prima
e del 38% rispetto al 2011 quando furono portate al prefetto di Torino, come dono di natale, le 5.251 chiavi delle imprese artigiane chiuse nella provincia.
E’, letta attraverso la mappa dei grandi cicli socio-produttivi succedutisi nella transizione all’oltre-novecento,
tutta intera la composizione sociale che la vecchia metropoli di produzione fordista aveva generato nel suo passaggio al post-fordismo,
con l’estroflessione della grande fabbrica centralizzata e meccanizzata nel territorio,
la disseminazione nelle filiere corte della subfornitura monoculturale, la moltiplicazione delle ditte individuali
messe al lavoro in ciò che restava del grande ciclo produttivo automobilistico, le consulenze esternalizzate,
il piccolo commercio come surrogato del welfare, insieme ai prepensionamenti, ai co.co.pro, ai lavori a somministrazione e interinali di fascia bassa
(non i “cognitari” della creative class, ma manovalanza a basso costo…
Composizione fragile, che era sopravvissuta in sospensione dentro la “bolla” del credito facile, delle carterevolving, del fido bancario tollerante, del consumo coatto.
E andata giù nel momento in cui la stretta finanziaria ha allungato le mani sul collo dei marginali, e poi sempre più forte, e sempre più in alto.
Non è bella a vedere, questa seconda società riaffiorata alla superficie all’insegna di un simbolo tremendamente obsoleto,
pre-moderno, da feudalità rurale e dajacquerie come il “forcone”, e insieme portatrice di una ipermodernità implosa.
Di un tentativo di una transizione fallita. Ma è vera.
Più vera dei riti vacui riproposti in alto, nei gazebo delle primarie (che pure dicevano, in altro modo, con bon ton, anch’essi che “non se ne può più”) o nei talk show televisivi.
E’ sporca, brutta e cattiva. Anzi, incattivita. Piena di rancore, di rabbia e persino di odio. E d’altra parte la povertà non è mai serena.
Niente a che vedere con la “bella società” (e la “bella soggettività”) del ciclo industriale, con il linguaggio del conflitto rude ma pulito.
Qui la politica è bandita dall’ordine del discorso. Troppo profondo è stato l’abisso scavato in questi anni tra rappresentanti e rappresentati.
Tra linguaggio che si parla in alto e il vernacolo con cui si comunica in basso. Troppo volgare è stato l’esodo della sinistra, di tutte le sinistre, dai luoghi della vita.
E forse, come nella Germania dei primi anni Trenta, saranno solo i linguaggi gutturali di nuovi barbari a incontrare l’ascolto di questa nuova plebe.
Ma sarebbe una sciagura – peggio, un delitto – regalare ai centurioni delle destre sociali il monopolio della comunicazione con questo mondo
e la possibilità di quotarne i (cattivi) sentimenti alla propria borsa. Un ennesimo errore. Forse l’ultimo.
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SIAMO UN PO’ PIU’ UGUALI AI MOVIMENTI GLOBALI
di Guido Viale
13 dic 2013
So ben poco, oltre a quanto ciascuno di noi può desumere da foto, filmati, reportage e commenti pubblicati da giornali e internet in questi giorni,
o da qualche incontro fortuito, sul movimento “Fermiamo l’Italia” ovvero “9 dicembre”;
ma non mi sento per questo in una condizione molto diversa da altri commentatori, perché tutti sono (siamo) stati presi alla sprovvista.
Questa è una rivolta, covata, ma anche preparata e cresciuta per più di un anno, fuori dal cono di luce dei media.
Quanto scrivo non ha quindi la pretesa di un’analisi di questo movimento.
E’ solo un modesto tentativo di aprire una discussione con qualche lettore di un’area politica e culturale a cui di fatto appartengo,
anche se ne condivido sempre meno perimetro e impostazioni.
Innanzitutto, non chiamiamoli “Forconi”. Forconi è il simbolo delle jacqueries di un tempo – un arnese peraltro un po’ attempato, come lo sono la falce e il martello –
ovvero la sigla di una delle componenti di questo movimento.
La maggior parte dei coloro che partecipano al movimento l’hanno chiamato – e non a caso — “Fermiamo l’Italia” o “9 dicembre”. Rispettiamone la volontà.
Per mesi si è svolto su riviste e blog di sinistra un dibattito sul perché in Italia non ci siano stati movimenti di piazza analoghi a quelli di Grecia, Spagna o Stati uniti,
nonostante il nostro paese sia uno tra i più colpiti dalla crisi, dall’economia del debito e dal malgoverno.
La risposta più intelligente e completa – ma non per questo la più convincente – è stata quella del collettivo WuMing:
il movimento Cinque stelle avrebbe di fatto assorbito e incanalato una tensione prevenendone l’esplosione in piazza.
Adesso eccolo quel movimento! In forme completamente diverse da quelle che chiunque
– e in particolare la cultura della sinistra e il movimento dei comitati, dei centri sociali e delle associazioni; ma in gran parte anche il movimento Cinque stelle –
se lo sarebbe potuto o voluto aspettare. Ma prodotto incontestabile della crisi, dei debiti e del malgoverno.
Non è e non sarà la sola manifestazione di rivolta contro questo stato di cose.
Quella rivolta l’abbiamo già vista, in forme più ordinate e produttive, in Val di Susa
(là dove le “larghe intese” sono state progettate e sperimentate per imporre il Tav, uno dei più devastanti prodotti a cui è approdata quella cultura
della crescita senza obiettivi che impronta di sé tutto il pensiero unico);
oppure tra i lavoratori e i cittadini liberi e pensanti di Taranto; o, in forme più conformi a una visione consolidata del conflitto di classe, tra di dipendenti dell’Atm di Genova.
Ne vedremo altre nei prossimi mesi, compresa l’evoluzione che assumerà quella di questi giorni, e in forme che non mancheranno di sorprenderci e — perché no? — di spaventarci.
Il conflitto di classe, diceva un tale a proposito della rivoluzione, che qui non è all’ordine del giorno, «non è un pranzo di gala».
Cinquant’anni fa, nel 1962, e proprio a Torino, una rivolta di piazza innescata da una manifestazione indetta dalla Cgil contro la Uil,
(firmataria di un accordo separato con la Fiat per bloccare la lotta operaia in una fabbrica
che era stata per più di un decennio teatro della più spietata oppressione padronale) era “degenerata” in quelli che sono passati alla storia come i fatti di Piazza Statuto.
Sorprendendo tutti, perché nessuno se li aspettava; anche perché ai primi manifestanti si era aggiunta, tenendo la piazza per alcuni giorni,
una folla sterminata di attori di incerta classificazione sociale: non la classe operaia inquadrata da sindacati e partiti,
ma una folla anonima di operai di piccole e piccolissime fabbriche, di immigrati e disoccupati, di gente “senza arte né parte”:
subito tacciati come “provocatori” dal Pci, che pure avrebbe poi dovuto contare tra gli arrestati anche diversi suoi membri e persino un funzionario.
Eppure, a distanza di anni, gli storici concordano nel vedere in quei moti la scintilla di un risveglio e la manifestazione di una nuova composizione sociale
che di lì a qualche anno sarebbero stati protagonisti dell’autunno caldo del ‘69 e delle lotte sociali del ’68 e degli anni Settanta.
Quello che si può dire oggi di questi manifestanti che si dichiarano “popolo” e che si riconoscono nella bandiera tricolore è che
— al di là dell’indignazione che li accomuna alle manifestazioni di Grecia, Spagna e Stati uniti, ma anche di Turchia e Brasile, e prima ancora, di Tunisia ed Egitto,
e che in Italia non si erano ancora viste — è che a venire in primo piano è la loro identità di poveri o di impoveriti: la manifestazione nuova e dilagante
— ma trattata finora dai media solo con numeri e percentuali – di persone che non ce la fanno più.
E non solo perché sono esasperati (in una maniera o nell’altra, lo siamo tutti o quasi); ma proprio perché non sanno più come campare:
non hanno più lavoro né impresa (ambulanti, autotrasportatori e agricoltori sono il cuore della rivolta); né reddito, né possibilità di studiare,
né pensioni sufficienti, né casa; né, soprattutto, possibilità di intravedere un qualsiasi futuro diverso dal protrarsi all’infinito di questa loro condizione.
Sono il prodotto maturo della finanziarizzazione e della globalizzazione dell’economia, di quei poteri
che hanno fatto terra bruciata di tutto quanto ancora esisteva tra la loro nuda vita e il potere di Stati, istituzioni e capitale;
il segno più tangibile del fatto che «così non si può più andare avanti». Sono l’avanguardia che lo grida e che lo fa capire a tutti.
Ha indignato molta stampa benpensante – soprattutto di centro-sinistra – la chiusura forzata, per lo più senza episodi di violenza, imposta dai manifestanti a negozi e pubblici esercizi.
Ma per chi il conflitto lo deve fare in piazza perché non ha o non ha più un luogo di lavoro da cui far sentire le sue richieste, quella è una forma di lotta.
Come un picchetto operaio: quello che alcuni chiamano un’arbitraria limitazione alla libertà di lavorare;
ma vai poi a vedere che cosa succede di quella libertà in una ordinaria giornata lavorativa, una volta che i cancelli della fabbrica si sono rinchiusi.
L’Ilva non ha insegnato niente?
Scandalo e soprattutto timore anche perché i poliziotti si sono levati i caschi e hanno deposto gli scudi di fronte ai manifestanti
contro cui si erano scontrati fino a pochi minuti prima. Non è forse un atto di solidarietà nei loro confronti, preludio – dio non voglia! – a una diserzione dai loro compiti?
Sì; è un atto di solidarietà e di fratellanza, checché ne dicano i sindacati di polizia, anche se probabilmente suggerito
— o imposto e concordato con le organizzazioni fasciste che partecipano alle manifestazioni — dai superiori o dagli alti comandi delle “forze dell’ordine”.
Proprio quei comandanti a cui si rivolge a Grillo, perché per lui la solidarietà non può nascere da un atto di ribellione, ma solo dall’obbedienza a un ordine;
mentre andrebbe invece colta l’occasione per dire a quei tutori dell’ordine pubblico: «la solidarietà che avete manifestato a Torino e a Genova,
la prossima volta datela anche ai NoTav della Valle di Susa. Ne vale la pena».
La rivolta del 9 dicembre non andrà avanti a tempo indeterminato, ma nemmeno si dissolverà come neve al sole.
Dopo le giornate della mobilitazione sopraggiungerà il tempo del ripiegamento e della riflessione.
E’ quello in cui potrà diventare possibile avvicinarsi ai suoi protagonisti non solo con una presenza in piazza,
ma anche e soprattutto attraverso un confronto e uno sforzo condiviso per enucleare obiettivi e rivendicazioni comuni.
Le forme assunte da questa mobilitazione, che non è spontanea ma neanche frutto di una precisa organizzazione,
ci possono far capire quanto distino le forme reali della partecipazione dalle forme strutturate della democrazia:
quella rappresentativa dei Parlamenti e dei consigli comunali o regionali, ma anche quella partecipativa, di una gestione condivisa ben organizzata di rivendicazioni o di “beni comuni”.
Non che vadano messe in contrapposizione; ma certo avvicinarle non è un processo né automatico né facile.
Altrettanto significativa è la dissoluzione, in questo ambito, delle tradizionali contrapposizioni tra destra e sinistra.
Non che ciò debba significare mischiarsi e confondersi con le organizzazioni fasciste che a questi moti, o alla loro preparazione, hanno preso parte.
Quelle organizzazioni sono radicate anche, e ben di più, nelle destre fasciste e naziste più tradizionali, con cui nessuna commistione è possibile.
Ma per la maggioranza di coloro che partecipano a questi moti destra e sinistra, come pure politica, se non nell’accezione più pura di autogoverno, non hanno più alcun significato.
Contano le distinzioni tra alto e basso, onesto e ladro, povero e ricco, sfruttato e sfruttatore. Impariamo a riusarle.
da il manifesto
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Intervento anticipatore di Alberto Perino
di Alberto Perino (Teatro Don Bunino – Bussoleno 7 dic 2013)
Farò un intervento che forse farà storcere il naso a qualcuno ma che ritengo sia di grande attualità.
In questi giorni c’è stato un grande dibattito sui canali internet del movimento notav e non solo, in merito alle manifestazioni di protesta del 9 di dicembre in avanti.
Non sono intervenuto in quella sede perché se ce uno che è stato preso per i fondelli pesantemente dal fascio quell’uno sono stato io
e quindi non volevo mettere delle cose nero su bianco proprio per evitare che poi qualcuno facesse di nuovo degli altri scherzetti,
ma qui una serie di cose voglio dirle.
Noi abbiamo lanciato in questi mesi il grido in giro per l’Italia che bisogna resistere e bisogna opporsi bisogna, in parole povere, sollevarsi e non accettare lo status quo.
Ovviamente, siccome non siamo gli unici che facciamo politica in questo paese, noi la pensiamo in modo molto pulito ma ci sono altri che la fanno in modo meno pulito,
non era pensabile che tutta una serie di parole d’ordine che lanciavamo noi non venissero riprese
ma vorrei ricordare a tutti il rischio che queste parole d’ordine possono essere lasciate in mano ad altri.
Io non dico che dobbiamo andare a braccetto che dobbiamo confonderci con il fascio, tutt’altro,
però voglio ricordare a tutti che questa protesta se ci sarà, io spero che ci sia, sarà fatta dal popolo, sarà fatta dalla gente,
sarà fatta da gente stufa, da gente che non ne po’ più, da gente che ne ha le scatole piene di questo governo e di tutta la casta.
Noi abbiamo impiegato molti anni di ragionamenti e di riflessioni di discussioni per passare da una posizione Nimby (Not In My Back Yard, lett. “Non nel mio cortile”)
perché è la prima che sveglia la gente e io non mi scandalizzo e sono ben contento – finché non spieghi alla gente che gli stanno girando la casa al contrario
in genere impiega un momento a capire poi, dopo che ha capito, puoi andare avanti ma subito
per svegliarli bisogna che abbiano l’immagine di una ruspa e allora lì magari funziona.
Noi, dicevo, abbiamo impiegato degli anni per riuscire a far sì che diventasse patrimonio comune il discorso dei beni comuni,
il discorso del modello di sviluppo, il discorso che ricordo a tutti che quello che sta succedendo oggi, questo modo di andare avanti,
questo modo di procedere non è più accettabile non po’ continuare, dicevo però, abbiamo impiegato anni non giorni.
Abbiamo fatto un sacco di riunioni, abbiamo discusso è la gente ha capito, il popolo notav ha capito che questo modello di sviluppo non è più accettabile.
Noi non possiamo pensare che dove non c’è stata questa lunga e lenta maturazione la gente di colpo capisca tutta una serie di cose.
I mercandin, gli autotrasportatori, chi si trova a non essere più in condizioni di pagare le tasse,
chi si trova in condizioni di impiccarsi perché non sa più che cosa fare è difficile che abbia avuto il tempo, la voglia e la capacità di maturare una serie di cose che noi abbiamo maturato.
Allora secondo me bisogna davvero riuscire a fare quel famoso salto di qualità che noi come movimento notav abbiamo fatto
che è andare oltre agli slogan, oltre alle cose e cercare di capire che quando un popolo è oppresso in qualche modo si ribella
ma bisogna anche capire che non possiamo lasciare ad altri il campo.
Non possiamo lasciare ad altri il campo storcendo il naso e dicendo”ah, se ci sono questi noi non ci andiamo” perché il popolo che protesta magari ci andrà lo stesso.
Vorrei ricordare a tutti l’esperienza di Alba Dorata in Grecia e vorrei ricordare a tutti il rischio che queste cose si possano ripetere anche in Italia.
Stiamo molto attenti su queste cose. Pare da alcuni sondaggi, poi per carità per quel che valgono i sondaggi…
che Alba Dorata se si andasse alle elezioni in Grecia oggi sarebbe il primo partito.
Allora facciamo attenzione a queste cose, facciamo attenzione. Con la scusa di non volerci far strumentalizzare stiamo attenti a non fare in modo
che gli altri strumentalizzino la ribellione popolare che è pronta a montare e a scoppiare perché non si può pensare che tutti quanti abbiano fatto lo stesso percorso,
non si può pensare che tutti quanti siano puri e duri e non si può neanche pensare che tutti quanti siano sulle stesse posizioni.
Io credo che la gente debba essere incoraggiata, istruita, debba essere in qualche modo incoraggiata
a fare il salto di qualità a capire che questo modello di sviluppo non po’ più andare avanti*, anche i mercandin.
Non si può più pensare che magari siamo tornati indietro per cui non facciamo nessuno scontrino, non paghiamo più niente, non facciamo più niente etc,
però non possiamo neanche essere impiccati perché ricordate che questo governo i grandi regali li ha fatti soltanto alle banche e ai banchieri
i quali non hanno pagato le tasse – gliele hanno condonate – non solo ma ci stanno tagliando sanità, pensioni, scuole e tutto il resto per regalarli ai banchieri,
no ai commercianti, no ai piccoli imprenditori, no agli autotrasportatori.
È questo il discorso che dobbiamo ricordarci sempre molto bene perché siamo tutti piccoli, tutti tartassati.
Grazie.
..