[Lavorazione] Il Mezzogiorno in prospettiva storico-economica

Raccogliendo la proposta di Perry_lorenz, inizio a buttare in questo wiki tutto il materiale che sto raccogliendo e gli appunti che scrivo, partendo dalle schede di lettura dei libri.

Bene. L’esperimento di lavorazione è quello che vedete qui sotto. Forse è poco “leggibile” e più “da consultazione”, perché ho seguito uno schema effettivamente troppo semplice: ho proceduto per titolo e non per argomenti. È venuta fuori quindi una cosa molto schematica e poco narrativa, forse anche per questo i commenti si sono interrotti. Come prima prova, direi che può andare bene.
QUI c’è la tesina.. quasi 50 000 battute con le note, quindi penso che andrà sistemata per bene in vista del 15 luglio.

Aspetto un gruppo di correzione di bozze e magari i commenti dell’assemblea.

Testi di interesse specifico:

1. A.A. V.V., Studi in onore di Gino Luzzatto, vol. III, Giuffré, Milano 1950
2. AA. VV., «Storia d’Italia», Einaudi, Torino 1978, Annali I (Dal feudalesimo al capitalismo)
3. APRILE P., Terroni: tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali, Piemme, Milano 2010; (controllarne la bibliografia);
4. Archivio economico dell’unificazione italiana, Torino : ILTE
5. BEVILACQUA P., Breve storia dell’Italia meridionale: dall’Ottocento a oggi, Donzelli, Milano 1993;
6. BEVILACQUA P., Critica dell’ideologia meridionalistica: Salvemini, Dorso, Gramsci, Marsilio, Padova 1972;
7. CASSESE L., Le fonti della storia economica dell’Ottocento: il Regno di Napoli, a cura di Giovanni Muto, Pietro Laveglia, Salerno 1984;
8. DAVIS J. A., Società e imprenditori nel Regno borbonico, 1815-1860, Laterza, Roma 1979;
9. DE BERNARDI A., Storia dell’Italia unita, Garzanti 2010 → parte terza sull’economia.
10. DEL MONTE A., GIANNOLA A., Il Mezzogiorno nell’economia italiana, Il mulino, Bologna 1978;
11. DEMARCO D., Il crollo del Regno delle Due Sicilie: la struttura sociale, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 2000;
12. DEMARCO D., L’economia degli Stati italiani prima dell’unità, Istituto Poligrafico dello Stato, Libreria dello Stato, Roma 1957?, pp. 192-258 (Estr. da: Rassegna Storica del Risorgimento, a. 44, fasc. 2-3 (apr.-set. 1957);
13. GREENFIELD K. R., Economia e liberalismo nel Risorgimento: il movimento nazionale in Lombardia dal 1814 al 1848, Gius. Laterza & Figli, Bari 1940;
14. LEPRE A., Il Mezzogiorno dal feudalesimo al capitalismo, Società editrice napoletana, Napoli 1979
15. LUZZATTO G., Storia economica dell’età moderna e contemporanea: l’età contemporanea, vol. II, CEDAM, Padova 1952
16. MACK SMITH A., The peasants’ revolt of Sicily in 1860, in A.A. V.V., Studi in onore di Gino Luzzatto, vol III, Giuffré, Milano 1950.
17. MASSAFRA A., Il Mezzogiorno preunitario: economia, società e istituzioni
18. MERIGGI M., Gli Stati italiani prima dell’Unità. Una storia istituzionale, Bologna 2002
19. QUATTRONE D., Dal 1815 ad oggi: riflessioni sulla politica e l’economia d’Italia, il problema del Mezzogiorno e scritti vari fuori testo, Todariana, Milano 1983;
20. Risorgimento e Mezzogiorno: rassegna di studi storici, Istituto per la storia del Risorgimento, Comitato di Bari, Levante, Bari, n. 1/1990;
21. ROMEO R., Risorgimento e capitalismo, Laterza, Roma 1998;
22. SACCO D., Stato e società nel Mezzogiorno : momenti e problemi in età contemporanea, Manduria, Lacaita 2005;
23. SARACENO P., Il nuovo meridionalismo, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 2005
24. SERENI E., Il capitalismo nelle campagne (1860-1900): con un nuovo saggio introduttivo, Einaudi, Torino 1968;
25. SIRAGO M., Le città e il mare: economia, politica portuale, identità culturale dei centri costieri del Mezzogiorno moderno, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 2004;
26. VILLARI R., Problemi dell’economia napoletana alla vigilia dell’unificazione: con una scelta di testi, G. Macchiaroli, Napoli 1957 (Tip. L’arte Tipografica);
27. VINCI M. V., Osservazioni sulle idee economico-sociali nel nostro Risorgimento, Unione Tipografica, Milano 1951;
28. ZAMAGNI V., Dalla periferia al centro → la prima parte sull’economia preunitaria
29. ZILLI I. (cur.), Lo stato e l’economia tra restaurazione e rivoluzione, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1990?, in Storia economica del Mezzogiorno 9;

Appunti vari

Va notato che l’interpretazione fascista del Risorgimento è paradossale: esso (il fascismo), infatti, è proprio il principale fattore di inversione delle istituzioni liberali venute fuori dal processo unitario. Eppure, tale lettura è stata resa possibile (Casalena, 2010). Perché?

  • Ipotesi1: perché era diffusa fin dall’inizio un’idea di incompiutezza del processo risorgimentale (problema: come mai la letteratura «militante» filo-sabauda, pur essendo in un certo senso egemone dall’inizio, non è riuscita ad imporsi nelle convinzioni generali?).
  • Ipotesi2: perché con la fine degli anni Ottanta e fino ai primi decenni del XX secolo a prevalere (o comunque a diffondersi largamente) sono le interpretazioni cd. garibaldine (problema: ma l’avvento di Crispi e degli ex-repubblicani al governo non neutralizzano questa visione?).
  • Ipotesi3: in questo spostamento della percezione collettiva, quanto pesano i problemi del sud e la repressione del brigantaggio? Quanto, invece, lo svilupparsi di un movimento operaio socialista?

Vedi sempre i “Sommari di statistiche” dell’Istat.

Rosario Romeo

Risorgimento e capitalismo, Laterza, Roma-Bari 1959.

L’opera è la raccolta di due saggi apparsi rispettivamente nel 1956 e nel 1958 sulla rivista « Nord e Sud ». Fanno entrambi parte del dibattito ingaggiato da Romeo (liberale, sulla scia del Croce) contro le “nuove tendenze” storiografiche marxiste, secondo l’autore tutte riconducibili all’interpretazione gramsciana del risorgimento come di una « rivoluzione agraria mancata ». Ha conosciuto notevole successo editoriale, quindi numerose ristampe. È ormai un classico della storiografia liberale.

Parte I. La storiografia marxista nel secondo dopoguerra (or. La storiografia politica marxista)

  • riconduce quel successo al successo elettorale del PCI in esplicita opposizione dialettica al liberalismo e alla sua cultura (in Italia, sostanzialmente) crociana;
    si stupisce dei “convertiti” al marxismo, ne riconosce spesso il valore quando si discostano dal dogmatismo, ma non scade mai nella cieca condanna;
  • polemizza contro la tesi del Gramsci sotto più punti di vista come «fondamentalmente di carattere pratico-politico». Non riconosce la democrazia rurale come vero superamento dialettico, non riconosce la presenza di una situazione “oggettivamente” rivoluzionaria, giudica impossibile l’alleanza masse contadine e borghesia in Italia perché ciò – al contrario di quanto avvenuto nella Francia rivoluzionaria – poneva in essere il maggior conflitto fra classi sociali (la borghesia era legata alla proprietà della terra e quindi non determinata a far completamente fuori l’ordine feudale), questo perché in Italia in quel momento (e non prima) si stava compiendo il processo di accumulazione primaria. Una vera e propria «democrazia rurale», dunque, per lui avrebbe potuto solo essere deleteria per lo sviluppo del capitalismo. Il che, nella prospettiva storico-materialistica del marxismo esplicito in Gramsci, non avrebbe avuto quel carattere di avanzamento progressivo che pure Gramsci attribuisce alla rivoluzione agraria, secondo lo schema: feudalesimo → borghesia/capitalismo → proletariato/comunismo;
  • passa in rassegna tutta la storiografia marxista (quella che ritiene più significativa) che tenta di applicare questa linea interpretativa di fondo alla realtà degli studi storici, rilevando scrupolosamente problemi, dogmatismi e rigidità nell’interpretazione dei fatti, nonché – quando serve – l’incompletezza delle fonti;
  • passa poi in rassegna anche la storiografia cattolica (p. 71), in particolare catto-comunista:

Parte II. Lo sviluppo del capitalismo in Italia dal 1861 al 1887 (or. Problemi dello sviluppo del capitalismo…)

  • riprende in mano tutto il dibattito sviluppato intorno al saggio precedente nei due anni che separano questi due interventi, analizzando i concetti di:
  • accumulazione primitiva del capitale:
    • non bisogna essere marxisti per adoperare questa categoria;
    • essa è il drastico cambiamento del rapporto fra consumi e investimenti (industriali);
    • la rivoluzione agraria del Gramsci non avrebbe prodotto altro che maggiori consumi (per via della frammentazione della proprietà contadina).
  • relazione aumento prodotto agricolo e distribuzione utili (p. 116)
  • livello elevatissimo di prelievo fiscale (anche destinato alla costruzione di infrastrutture e di tutto l’apparato amministrativo statuale moderno)
  • imprese capitalistiche (anche con forte presenza di capitale straniero):
    • si rivolgono soprattutto ai « servizi pubblici, di trasporti ferroviari e tramviari, illuminazione a gas, acquedotti […] che sono appunto le forme di investimento preferite, come è noto, nei paesi sottosviluppati, vuoi nell’intento di fornire materie prime alle industrie manifatturiere dei paesi investitori, vuoi per la maggiore sicurezza e stabilità della domanda che è assicurata alle imprese di servizi pubblici » (p. 133) → tipico di ogni paese nella sua fase di pre-industrializzazione è proprio dedicarsi alla creazione di infrastrutture;
    • ma anche verso i settori industriali più direttamente collegati all’agricoltura (alimentare, trattura della seta, molitura del grano, brillatura. Agricoltura è industria, dunque, «si danno la mano»;
    • comunque la generale terziarizzazione (se ne può parlare non nel modo in cui s’intende oggi, ma come tendenza di trasformazione) è maggiore dell’industrializzazione propriamente detta. Ciò significa, innanzitutto, aumento di commercio e mercato finanziario (v. anche p. 146-7);
  • industria: a partire dal 1880 si avvertono fortemente in Italia le ripercussioni della crisi esplosa nel 1873, che durerà almeno fino alla metà degli anni Novanta (trad. il termine è collocato al 1896). Da qui vengono allo scoperto alcune debolezze dell’impresa capitalistica italiana (come si è detto, soprattutto a ridosso dell’agricoltura) basata poco su « un adeguato impiego di capitale e da effettivi progressi tecnici » (p. 155) e molto più mutuata sulla base di un settore agricolo estremamente dinamico ed espansivo. In più quest’arresto porta ovviamente al termine quel sistema di accumulazione primitiva che nell’agricoltura (e nella redistribuzione a svantaggio della classe contadina) aveva trovato il suo centro propulsivo.
    • la conseguenza immediata è che il prelievo fiscale statale si trova sguarnito del suo principale contribuente (ovvero la tassazione sulla terra), cosa che verrà affrontata proprio dalla Sinistra negli anni Ottanta e oltre, tramite lo spostamento verso le attività mobiliari. Continua quindi un grande intervento statale nelle opere pubbliche, le quali («almeno in una parte del paese» avevano perso il loro carattere “infrastrutturale” e “pre-industriale”. Mutata la base del prelievo, inoltre, esso diventa volano di un reinvestimento della ricchezza prodotta dal terziario (commercio e industrie manifatturiere) sotto forma di investimenti proprio nel terziario.
    • protezionismo 1887: tutta la polemica sui danni (dovuti anche a veri e propri errori tecnici) apportati allo sviluppo. Comunque di colloca in un momento in cui l’Italia sperimenta la nascita della grande industria, accentuando quei problemi di distanza città-campagna, Nord-Sud, industria-agricoltura che divengono nel tempo strutturali (R. non usa questo termine) e danno vita a quella grande « negatività storica e morale » dovuta alla «inferiorità economica del Sud, ma anche del suo scadimento sociale e civile e della miseria e della sofferenza delle genti meridionali, che avrà la sua espressione più vistosa nel grande dramma dell’emigrazione» (p. 179)
  • mancanza di una ideologia dell’industrializzazione (p.180): né il liberalismo e la Destra, né il protezionismo a favore dell’industria che “incontra” il protezionismo agrario del Meridione, ma neanche la cultura marxista.

Come avrà modo di scrivere altrove (L’Italia unita e la prima guerra mondiale, Bari 1978, p. 28, cit. in P. Villani, Gruppi sociali e classe dirigente all’indomani dell’Unità, in «Storia d’Italia», Torino 1978, p. 883):

«il momento decisivo del moto per l’unità italiana resta […] l’iniziativa politica e intellettuale dei gruppi d’avanguardia; e ogni tentativo di ricostruirlo in funzione di interessi economici è condannato inevitabilmente a fallire. Tutto ciò va detto non certo per negare l’importanza dell’analisi dei rapporti tra questa iniziativa intellettuale e politica e la realtà economica del paese: ma come necessario avviamento a una corretta impostazione del problema, che sfugga al pericolo di soluzioni fondate su elementari rapporti di tipo causalistico, e riesca invece a cogliere la ricca serie di reciproci condizionamenti che legano insieme e dànno un significato coerente e unitario alla spinta risorgimentale»

Riguardo all’interpretazione di Gramsci e al Partito d’Azione, v. Brian Pullan – Stuart J. Woolf, Plebi urbane e plebi rurali: da poveri e proletari, parte II: _ La formazione del proletariato_, in «Storia d’Italia», Einaudi, Torino 1978, Annali I (Dal feudalesimo al capitalismo), p. 1068-69:

«I poveri in Italia alla metà del secolo XIX, quali apparivano a coloro che avevano un’acuta coscienza sociale, continuavano a esistere, come era accaduto nei secoli passati in quanto una massa di individui essenzialmente passiva e indifferenziata. Essi rappresentavano un oggetto di compassione, e in alcuni casi una causa di preoccupazione. […] Nessun tentativo venne compiuto per ottenere il loro appoggio durante le lotte politiche del Risorgimento, se non dai democratici mazziniani. E Mazzini non solo limitò i suoi appelli agli artigiani delle città, ma non cessò mai di sottolineare l’importanza delle cooperazione e della collaborazione delle classi. La coesione sociale rimaneva l’ideologia dominante. Le insurrezioni di massa dovevano essere rifiutate, come Manin respinse l’appoggio nel 1848, e i garibaldini lo repressero nel 1861».

Sempre in Stuart J. Woolf:

«Nel Mezzogiorno l’industria domestica rurale fu distrutta dalla rigida adesione al libero scambio propugnata dai politici moderati al potere e dalle conseguenti importazioni di tessuti inglesi, più che dai risultati diretti dell’unificazione (che fece risentire i suoi effetti solo lentamente a partire dal completamento della principale struttura ferroviaria nel 1877)» (p. )

Gino Luzzatto

Storia economica dell’età moderna e contemporanea, II, Cedam, Padova 1952, cap. IV ( Tendenze nuove dell’economia italiana nel Settecento ).

Appunti su *Gino Luzzatto e mie considerazioni*. Il campo d’indagine dell’economia è sempre stato preso in grande considerazione dalla storiografia sul Risorgimento e il processo di unificazione italiana. Almeno se ci concentriamo su quella stagione storiografica degli anni Cinquanta che rimette fortemente in discussione, con parti politiche fortemente delineate (Gramsci-Sereni vs. Romeo-Chabod [ ? ]). Ne è un esempio Gino Luzzatto, che nella sua storia economica → prende a descrivere la situazione italiana in termini di prospettiva unificatrice già dal Settecento: la sua interpretazione, in particolare, è che – mutate le correnti dei traffici commerciali – le città italiane perdono quella loro favorevole posizione geografica per le quali si erano trovate in un predominio internazionale di fatto. Perdendola, pur nelle normali resistenze della “vecchia mentalità mercantile”, si approda ad un rinnovato interesse per i problemi della terra (spinto sia dalla pressione demografica → rivoluzione agricola_, sia dal fatto che comunque il ceto dirigente delle grandi città aveva sempre posseduto terra in grandi quantità e, venendo meno gli alti profitti dei commerci via terra e via mare, vi si dedica con rinnovata intensità (lasciando quelle occupazioni a «_ad uomini nuovi, più ardimentosi, meno legati alla tradizione e che soprattutto non avessero un patrimonio da conservare [ … ] stranieri, di ebrei e di elementi della minore borghesia» (p. 153). Quindi sviluppo (corroborato da studi e tentativi di innovazione tecnica, nonché trattati politici a riguardo) dell’agricoltura accompagnato dalla lotta alle corporazioni artigiane cittadine, altro baluardo del vecchio sistema economico: ciò si attuò non abolendole (eccezioni: Toscana 1750, Lombardia 1778-1786, il Regno delle Due Sicilie lo fa nel 1821 → Demarco, p. 81.), cosa che avviene con la Rivoluzione, ma aprendo la possibilità di diventare “maestro”, innanzitutto come numero, e poi anche ai non cittadini, a volte anche stranieri. Tutto ciò accompagnato dall’apparire di alcune industrie domestiche (e a carattere capitalistico) che si concentrano nelle zone rurali, specie nel campo della seta (Valle Padana – Piemonte: collegamento Lione): coltivazione gelso, allevamento baco da seta, industria della trattura. E questo già dalla seconda metà del Settecento.

È questo, in generale, anche un momento (metà Settecento) in cui iniziano ad essere compilate con una maggiore attenzione le statistiche economiche (soprattutto doganali). Almeno a Venezia. Da controllare altrove.

Mutata funzione dei porti: prima le importazioni via mare sono alimentate dalle industrie cittadine e dalle importazioni nel retroterra straniero. Verso la metà del Settecento questo (almeno per Venezia e Livorno) si interrompe per lasciare spazio alla produzione regionale (nei centri minori, nelle industrie rurali) e alle materie prime provenienti dall’agricoltura.
Muta anche l’assetto istituzionale verso una maggiore considerazione del ruolo della campagna nell’economia dello stato e verso una perequazione di trattamento fra città dominante e contado provinciale (inteso anche con le cittadine minori): introduzione del catasto1 (= riorganizzazione della ripartizione dell’imposta fondiaria) e eliminazione delle dogane interne (meglio: affievolimento. L’eliminazione totale arriva verso la fine del secolo: Toscana 1781, Lombardia 1785, Napoletano 1791, Veneto 1794).

Molto interessante la nota di Luzzatto riguardo le riforme di Maria Teresa nel ducato di Milano (1748-1760): le riforme amministrative, quelle istituzionali nel catasto e quindi nella perequazione dell’imposta tributaria, il declino ormai avviato dell’economia cittadina medievale incarnata dalla coppia industria-commercio, rinnovano un forte interesse verso la terra: fatto di sicurezza del possesso, tributo fisso per un numero di anni adeguato e non arbitrario (questo perché la riforma catastale era stata particolarmente lunga e capillare), una restrizione dei diritti feudali sulla terra e dei possessi ecclesiastici, cui si aggiunge una rinnovata e pionieristica rete di trasporti interni al ducato (se si esclude l’alta montagna). Tutto ciò, aggiunto alla fine delle guerre della prima metà del XVIII sec., contribuisce a creare una classe di «nuova borghesia agraria» (p. 163) (commerciabilità della terra, maggiore frazionamento, proprietà diffusa) e quindi a rilanciare l’economia agraria della regione e ad aumentare la produttività della terra. Questo avviene sia nella media Lombardia (zona maggiormente interessata dalla presenza di un tessuto urbano), dove i nuovi ricchi provenienti dal commercio, dall’appalto di opere pubblichi, dall’industria della seta, investono nella terra; sia nella bassa Lombardia dove la riforma catastale toglie le numerose immunità sulle grandi tenute ecclesiastiche e nobiliari, obbligando i proprietari (per la perequazione tributaria) a dover aumentare la produttività della terra, cosa che raggiungono spezzando i loro latifondi e affittandoli con contratti a lunga scadenza.

Ancora più interessanti le considerazioni su «Artigianato e industria capitalistica» (p. 178 e ss.), in cui L. mette in luce tre cose:

  • sviluppo non sporadico di miglioramenti in campo industriale (anche se è l’economia agraria a farla da padrone)
  • il mancato contrasto (o attenuato rispetto a ciò che si pensa solitamente) fra corporazioni artigiane cittadine e libera impresa capitalistica in quanto tale, ma piuttosto per fattori di ordine parzialmente diverso. Cioè, l’artigianato cittadino, soprattutto come forma di organizzazione del lavoro – «tante minuscole aziende indipendenti, in cui il maestro sia nello stesso tempo imprenditore, lavoratore e commerciante» – «si può ancora incontrare in tutte quelle piccole industrie che soddisfano ai bisogni elementari e immediati del consumo locale, alle quali si adattano i piccolissimi esercizi che lavorano per una clientela ristretta e ben consolidata» (p. 179). Nelle industrie più grandi, invece, già dal «più tardo medioevo» si è passati ad una organizzazione propriamente capitalistica in cui, sotto la formale divisione in maestri-discepoli-lavoranti si nasconde un imprenditore capitalista che usa tutte queste figure come operai salariati, spesso riuniti sotto un unico opificio. In questo contesto alle corporazioni, specie nella seconda metà del XVIII, rimangono funzioni di monopolio nelle piccole produzioni (spesso legate ad un mercato di lusso, di nicchia, che difficilmente si industrializza in questo senso), oppure ben più «innocue funzioni di culto, di mutuo soccorso, di disciplina interna». I motivi di contrasto (aspri ma non molto frequenti) fra il “vecchio” e il “nuovo” avvengono, ma non perché si riconosce a questi monopoli (peraltro limitati) un ostacolo alla libera impresa capitalistica (che risulta molto più ostacolata dalla perdita dei mercati e dalla concorrenza esteri), ma perché in un generale clima di incremento demografico e aumento dei bisogni generali, appare ingiustificata la chiusura gretta di piccoli gruppi di privilegiati che si passano conoscenze e posizioni sociali di padre in figlio.

«Perciò in molte città italiane, e in prima linea a Venezia, si chiede ad alta voce, e finalmente si ottiene, non la soppressione delle Arti, che sarà attuata soltanto dal governo napoleonico, ma la loro apertura» (p. 180).

«Una prova di quanto sia stata decisiva, in questo campo, l’opera della Rivoluzione si può vederla nella lentezza estrema con cui furono applicate, per l’assenza appunto di una forte spinta dal basso, le famose leggi eversive della feudalità nel Regno di Napoli, che, pubblicate fin dal 1807 incontrarono tali resistenze ed ostacoli che, 60 anni più tardi, l’abolizione dei diritti feudali era ancora incompleta.» (Luzzatto, p. 204)

  • intervento forte dello Stato: che concede spesso privilegi, sgravi fiscali, esenzioni daziali per le materie prime d’importazione e “privative” (diritti di esclusiva) a industriali (spesso stranieri) che decidono di impiantare rami nuovi d’industria nei territori della penisola. Ma anche con intervento diretto, sia infrastrutturale (ma una politica propriamente modernizzatrice dal punto di vista delle infrastrutture, la si rileva solo nella Lombardia austriaca) sia industriale: è il caso della corte borbonica nel mezzogiorno:

«Ferdinando IV fonda a proprie spese, nel 1783, il laboratorio di S. Leucio per la tessitura della seta; l’anno dopo, egli istituì a Reggio Calabria una filanda e un filatoio sul modello piemontese», con l’innesco anche di effetti imitativi: «Il suo esempio fu presto seguito dai privati: compagnie di capitalisti istituirono fabbriche di panni fini a Napoli, di drappi serici a Messina, di canne di fucile a Torre Annunziata. Le fabbriche di maioliche in provincia di Teramo, quelle di porcellana a Capodimonte, di vetro a Napoli, crebbero di numero e perfezionarono i loro prodotti. Gli operai furono tratti dagli Stati più progrediti dell’Italia e dell’Europa occidentale, si fecero venire minatori alla Sassonia per lo sfruttamento delle miniere di ferro, e un certo numero di giovani napoletani fu mandato in Germania per apprendervi i segreti dell’arte siderurgica» (p. 186-87).

1 Riorganizzazione del catasto nei vari stati italiani: in generale hanno un vizio di fondo: si basano su scarso controllo e lasciano tutto alle dichiarazioni dei possessori (estimo personale), tentano poi tutti di risalire a diritti che risalgono alle autonomie cittadine (e quindi al predominio della città sulla campagna). Papa Innocenzo XI 1681, Carlo Emanuele I (Piemonte) 1622 – Vittorio Amedeo II (perfezionamento prov. Torino) (primi 700?) ma concluso solo dopo a: Novara-Lomellina (1775), Aosta (1783) e Monferrato (incompiuta al momento della conquista francese), Carlo III (Napoli) 1741. Il catasto ordinato da Maria Teresa d’Asburgo resta quello più esemplare che si svincola dalle problematiche intrinseche dell’estimo personale.

Germania-Italia

Fra Restaurazione e Rivoluzione (1815-1848)

G. Luzzatto (capp. VI, IX, XI) da incrociare con Ilaria Zilli, Lo Stato e l’economica tra Restaurazione e Rivoluzione. I. L’agricoltura (1815-1848). II. L’industria, la finanza e i servizi (1815-1848), in Storia economica del Mezzogiorno 9 (* e **), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997.

Gino Luzzatto, Storia economica dell’età moderna e contemporanea_, II, Cedam, Padova 1952, cap. XI (_Germania e Italia fino alla conquista dell’Unità nazionale)

  • La Germania dei “fondatori” o dello Zolleverein (1834) si premura di:
    • costruire strade (a livello statale, di Lander e di Comuni);
    • costruire reti ferroviarie. I primi risultati sono l’incremento fortissimo dei flussi commerciali interni (specie nella conformazione di una certa divisione del lavoro fra l’area occidentale – urbanizzata e più popolosa – e quella orientale – agraria – che si completano a vicenda), mentre più difficile è risultato essere il secondo.
    • Inoltre si gettano le basi per un superamento della proprietà feudale della terra (con tutto ciò che questo può significare in relazione ai pesi tributari e giurisdizionali che da questo derivano), anche se è solo con il 1848 che il processo viene portato a completezza nell’Est.
    • Ma soprattuto in Germania sorgono delle banche di credito industriale, specificamente nate per «favorire cioè il sorgere ed il fiorire di nuove attività industriali e commerciali, agevolandole nella sottoscrizione del capitale azionario e neglio aiuti per fronteggiare l’insufficienza del capitale di esercizio» (p. 322). Si inizia a delineare quel sistema bancario che si fa promotore dell’attività industriale grazie alla «mancanza di ogni limitazione nell’impiego dei depositi, sia ch’esso fosse richiesto per crediti a breve, a media o a lunga scadenza, nella persuasione, confermata effettivamente, fino al 1914, dai fatti, che l’aumento continuo del numero, della varietà, della model degli affari avrebbe offerto una garanzia più che sufficiente contro i rischi dei crediti a lunga scadenza» (p. 322).
  • L’Italia. Sulla scorta del successo riscosso dalle piccole iniziative di fabbrica che gravitano intorno alla seta (e quindi si trascinano anche l’allevamento dei bachi e la coltura del gelso), anche la proprietà fondiaria risente di questo cambiamento, con questa conformazione: aumento del numero dei proprietari in pianura e collina, frazionamento delle terre comuni specie in montagna e infine (in controtendenza) concentrazione nella bassa pianura (proprio per l’assenza dell’attività industriale di cui sopra). Si parla in questi soprattutto (se non esclusivamente) del Settentrione: Piemonte e Lombardia in primis. Nel Meridione la frammentazione delle terre, oltre ad essere contrastata, crea uno spezzettamento della proprietà tale da risultare deleterio e costringere i piccolissimi proprietari a continuare la loro attività di braccianti («la quotizzazione delle terre demaniali, attuata attraverso a gravi resistenze e controversie, conduce a quella polverizzazione della proprietà che, tolte le poche terre adatte al vigneto od agli ortaggi, ha recato più danni che vantaggi all’agricoltura, e raramente ha portato un sensibile vantaggio agli stessi destinatari delle minuscole quote, i quali non han potuto per questo abbandonare la loro condizione di braccianti e si son visti costretti molte volte a vendere le quote stesse.» (p. 324-325). Per quanto riguarda il credito, invece, con diffidenza vengono utilizzati i metodi e gli strumenti bancari che stanno formando la attività capitalistica del continente europeo, preferendo di gran lunga il prestito ipotecario. Senza la terra, dunque, non si riesce a far nulla in Italia fra gli anni Trenta e Cinquanta dell’Ottocento. In più, specie nel Mezzogiorno, si lamentano gravi carenze nei sistemi di comunicazione, sebbene in tutta la penisola ci fosse un gran fermento di fogli, riviste, giornali, atti accademici che con sempre maggior interesse si occupavano della cosa. Ma tutto ciò non sfociò mai in una grande opera coordinata di costruzione di infrastrutture capaci di mettere in collegamento i vari stai pre-unitari, quindi di avere ripercussioni apprezzabili nel campo del commercio interno a tutta la penisola; e questo sia per la mancanza di capitali, sia – forse con maggior peso – per le «difficoltà politiche per cui i governi dei singoli Stati temevano che una rete ferroviaria regionale raccordata con quella degli Stati vicini potesse costituire una minaccia per il mantenimento della loro esistenza autonoma e sovrana.»

«Anche nel Regno di Napoli, e specialmente nel Mezzogiorno continentale, dopo il primo ventennio della Restaurazione, durante il quale si lamenta lo stato estremamente triste delle comunicazione, l’isolamento e la grettezza della vita delle città di provincia, il perdurare, nonostante le leggi eversive, di istituti e metodi feudali, si comincia, dopo il 1835, a notare segni inaspettati e assai promettenti di risveglio. La libertà di esportazione della seta greggia, concessa nel 1824, incoraggia la ripresa della coltura del gelso e dell’allevamento dei bozzoli, in modo che – dieci anni dopo – si raggiunge una produzione di 400.000 kg. di seta greggia. L’industria della lana, con l’aiuto di un sistema doganale quasi proibitivo, prendeva un notevole sviluppo in varie province del Regno, impiegando quasi totalmente le lane dell’allevamento locale, e producendo, per lo più minuscoli opifici o con telai domestici, stoffe di qualità ordinaria destinate al consumo locale. Tuttavia alcune fabbriche, dotate di telai meccanici, sorgevano a Napoli e nella valle del Liri, producendo anche stoffe di qualità più fini. L’industria della lana, con l’aiuto di un sistema doganale quasi proibitivo, ma per la sola lavorazione, in forma domestica, della materia prima di produzione locale, è ora trasformata per opera di alcuni industriali svizzeri e tedeschi, i quali impiantano nella valle del Liri e nel Salernitano delle vere fabbriche per la filatura e la tessitura meccanica di cotoni d’importazione. Il numero complessivo di 30.000 fusi e di 200 telai meccanici, raggiunto nel 1840 dai cotonifici meridionali, non è certamente rilevante, ma rappresenta tuttavia un progresso notevole per un paese che era ai primi passi dell’industrializzazione.» (Luzzatto, p. 328-329)

Ilaria Zilli (cur.), Lo Stato e l’economica tra Restaurazione e Rivoluzione. I. L’agricoltura (1815-1848). II. L’industria, la finanza e i servizi (1815-1848), in Storia economica del Mezzogiorno 9 (* e **), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997.

Sono gli atti del convegno napoletano «Lo Stato e l’economia tra Restaurazione e Rivoluzione (1815-1848)», organizzato nel 1993 dall’Istituto di Studi sull’Economia del Mezzogiorno nell’età moderna del CNR.
Il passo fondamentale segnato dalla storiografia più recente (una sorta di seconda ondata di studi, che parte nell’ultimo ventennio del secolo scorso) è quello di considerare le numerose differenze territoriali interne al Regno delle Due Sicilie. Si tratta di ristabilire lo studio del Mezzogiorno in un quadro articolato e complesso nel quale il famoso dirigismo borbonico va ad incontrarsi con resistenze e disomogeneità di vario tipo. Se questo era chiaro per la Sicilia già nella storiografia degli anni Cinquanta (v. R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Laterza, Roma-Bari 1950), e non poteva non essere così, si sente nelle ricostruzioni di periodi più recenti una continua insofferenza verso quella polemica meridionalista che ha finito per formare, forse suo malgrado, un giudizio e un’attitudine mentale ai problemi del Mezzogiorno poco articolata e riduttiva.

«La necessità di destrutturare, come si diceva, le categorie interpretative rigide – come decadenza-progresso, tradizione-modernità, arretratezza-sviluppo – a cui si è spesso fatto ricorso per spiegare la realtà meridionale vale anche per altre realtà italiane preunitarie, soprattutto quello che, come il Mezzogiorno, presentavano delle evidenti gerarchie interne tra aree più o meno sviluppate pur racchiuse nei confini di uno Stato.» (p. XIX)

Notare: ricchezza di rimandi bibliografici nell’Introduzione. Tenere a mente per il futuro.

Domanda

La perdita del mercato estero dovrebbe spingere gli stati italiani pre-unitari ad uno sforzo di eliminazione delle barriere interne. C’è comunque da notare il tentativo di unione doganale del 1847 e la presenza nel dibattito (e nella sensibilità almeno di una fetta della classe dirigente degli stati preunitari) di questa tematica e di queste preoccupazioni2. Non fu così: perché?
Primi elementi di risposta:

  • permanenza (o re-introduzione post-rivoluzionaria) di una politica annonaria, che prevede che i prodotti agricoli possano essere esportati solo dopo aver soddisfatto l’approvvigionamento del capoluogo;
  • misure di protezione verso industrie domestiche;
  • generale scarsa collaborazione fra gli stati pre-unitari, come si vede anche al momento del coinvolgimento militare unitario anti-austriaco (Prima d’indipendenza) che vede la defezione di chi non vede nell’annessione del Lombardo-Veneto alcun interesse che non sia quello diretto del Regno di Sardegna;
  • si tenga inoltre presente che, ad eccezione della (sola?) Toscana, gli stati preunitari mettevano in atto un protezionismo che in alcuni casi (Regno di Sardegna) raggiungeva il parossismo: fra Piemonte e Liguria fino al 1818, ad esempio.
  • Bisogna poi tener presente che la situazione italiana dopo il Decennio napoleonico è, per volere esplicito innanzitutto dell’Austria, una compagine complessa di piccoli stati, specchio di quel coacervo di poteri locali e frammentari che la Restaurazione vuole riesumare e che la caratterizza. Si potrebbe aggiungere che al concetto di “nazione” è stato sostituito quello di “corona” per legittimare il nuovo ordine e il popolo non è più un popolo di cittadini-amministrati, ma di sudditi. Sebbene questo potrebbe ricalcare troppo la retorica del sentimento tutto risorgimentale del “giogo straniero”, bisognerebbe vedere il livello di collaborazione economico-commerciale fra i vari territori sottoposti, direttamente o indirettamente, all’Austria: tutta la penisola eccetto il Regno di Sardegna, quello delle Due Sicilie, San Marino, lo Stato pontificio e Lucca (fino al 1847). (cfr. Meriggi)
  • « È sullo sfondo di questa dialettica tra municipalismo dell’abitudine e inedita pulsione alla coralità e all’allargamento di orizzonti indotta dall’affacciarsi del motivo nazionale che, anche altrove, nell’Italia del ‘48-49, la vita parlamentare trovò il suo svolgimento. Il municipalismo vi si mostrava a due distinti livelli. Il primo risultava tutto interno a ciascuno degli stati costituzionalizzati, dal momento che la prevalenza dell’istituto del collegio uninominale (fecero eccezione il regno di Napoli e la Sicilia, dove si votò col maggioritario plurinominale, sistema occasionalmente utilizzato anche nelle consultazioni tenutesi nella repubblica di Venezia e nel 1849 in Toscana) non poté che tradursi nell’affermazione parlamentare dei notabili, ovvero di quegli stessi pater familias che il moderatismo prequarantottesco aveva idealmente contrapposto ai funzionari della burocrazia statale, offrendo a essi i margini di adattamento per proporsi in sede politica nell’interpretazione di un ruolo neocampanilista. Il secondo, viceversa, si espresse a livello di relazioni interstatali, inibendo la durevole cristallizzazione di un fronte politico-militare unitario, capace di contrapporsi in modo efficace alla reazione austriaca, una volta che questa cominciò a dispiegarsi a partire dalla tarda primavera del ’48. » (Meriggi, p. 186-187)

D’altronde questo tipo di intervento non risultò facile da nessuna parte, in Europa: si veda a questo proposito l’opera di Turgot prima della Rivoluzione che, se fosse andata a buon fine, avrebbe portato la Francia ad una “via inglese”, se si vuole, cioè ad una fine del feudalesimo senza il bisogno della spinta dal basso inevitabilmente tumultuosa e violenta. Turgot, infatti, si guadagnò con questa sua operazione (tentativo di abolizione dogane, tentativo di soppressione delle corporazioni di mestiere) l’odio (e la resistenza) di un fronte vastissimo, nel quale si raccoglieva tutto un gruppo di interessi nient’affatto omogeneo, tanto da provocarne la caduta:

«nobiltà feudale e clero, maestri artigiani e bottegai, appaltatori di dazi, di pedaggi, tutte queste sopravvivenze delle vecchie economie chiuse avevano bensì di fronte a sé interessi ormai formidabili ed una larghissima corrente di opinione pubblica, ma avevano anche per sé la forza della tradizione di una organizzazione secolare, e non sarebbero caduti di un tratto se non fosse intervenuta una scossa violenta, che interrompesse quella tradizione e troncasse la base stessa di quella organizzazione» (Luzzatto 1939, p. 205).

La domanda, dunque, diventa: da dove viene fuori la questione meridionale? Essa ha radici profonde oppure contingenti al processo di unificazione? E se vi sono radici storiche profonde, quali sono gli svantaggi che il Regno delle Due Sicilie accumula nei confronti degli altri stati pre-unitari? E: si aggravano? Si riducono?

2 Ilaria Zilli, nell’Introduzione, nota: «L’economista napoletano Ludovico Bianchini, alla metà degli anni Cinquanta, analizzava dettagliatamente e con precise cognizioni di causa la validità e il significato dell’unione doganale tedesca, e la sua non doveva essere una voce isolata. Su questo tema, ovvero sui legami tra riflessione politica-economica tedesca ed italiana, non esistono molti studi specifici. Alcune interessanti indicazioni – che sembrano confermare lo scambio di idee e di proposte tra la realtà italiana e la realtà tedesca – si possono ricavare da un breve articolo di R. MORI, L’Italia ed il processo di unificazione germanica, pubblicato in Le relazioni italo-tedesche nell’epoca del risorgimento, Atti della Conferenza e discussione dell’8a Riunione italo-tedesca degli storici, Braunschweig 24-28 maggio 1968, Braunschweig, A. Limbach Verlag, 1970, pp. 21-38» (p. XV).

Domenico Demarco

Il crollo del Regno delle Due Sicilie (I. La struttura sociale), 1966 (1a ed. 1960).

Riporto specchietto delle monete e delle misure correnti negli ultimi 40 anni del Regno (p. 1):

« Le monete correnti nel regno di Napoli erano le seguenti: 1 ducato = lire 4.25 (1860) che si divideva in 100 grana; 10 grana = 1 carlino. In Sicilia, i decreti del 30 aprile 1818 e del 6 marzo 1820, prescrissero che a partire dal 1821 i conti fossero tenuti in ducati di regno di 100 baiocchi = lit. 4.25; 1 baiocco = 10 piccoli, 1 piccolo = lit. 0,0042, ma si continuò a contare in onze:
1 onza = 30 tarì = lit. 12,75
1 grano = 6 piccoli
1 tarì = 20 grana
1 piccolo = lit. 0,0035
I pesi e le misure più in uso erano:
il cantaio = 89,09 chili
la caraffa = 0,727 litri
il rotolo = 0,89 chili
la versura = 1,22 ettari
la libbra = 0,321 chili
il moggio = 0,33 ettari
l’oncia = 27 grammi
la salma siciliana = 1,74 ettari
il tomolo (aridi) = 56 litri
il miglio = 1851,85 metri
la botte = 523,49 litri
la canna = 2,10 m. fino al 1840 e
la salma per il frumento = 275 litri in Sicilia
m. 2,64 dal 1840 in poi.

Brevi sull’autore. Demarco è stato uno dei pionieri della disciplina storico-economica in Italia, entrando a pieno titolo in quella prima generazione di storici, spesso di formazione eterogenea (provengono spesso dagli istituti commerciali e hanno una preparazione universitaria non letteraria: ad es. Demarco ha studiato – anche se solo per il primo biennio – alla Bocconi di Milano, fonte: F. Assante, Domenico Demarco, l’uomo, lo storico, in ?. Balletta, Il pensiero e l’opera di Domenico Demarco, Franco Angeli, Milano 2010, pp. 23-37)

L’opera è concepita in più volumi di cui solo il primo (La struttura sociale) sarà portato a termine (il resto degli studi accennati nella Prefazione dello stesso autore, invece, sono probabilmente confluiti in opere autonome: siano d’esempio i lavori sul sistema creditizio e il Banco delle Due Sicilie – bibliografia da recuperare). Nell’impostazione di fondo sembra di trovarsi non certo difronte ad un meridionalista, e nella Prefazione i rapidi accenni sulla spedizione garibaldina sembrano per nulla critici:

«Per conseguenza, l’Autore è convinto, e in questo confortato dai risultati irrefutabili di più recenti ricerche, che il Risorgimento nell’Italia meridionale non fu opera di una minoranza, la quale dovè vincere qui la resistenza dell’aristocrazia e dei contadini, di un movimento di classi medie di provenienza agraria e della borghesia intellettuale, desiderose di accaparrarsi le terre ecclesiastiche e sbarazzarsi dell’assolutismo borbonico. Oltre alla partecipazione delle classi medie agricole vi fu quella della nuova borghesia commerciale e industriale, delle moltitudini rurali, del popolo minuto delle città e dei villaggi, insomma della parte più numerosa della popolazione, per cui può dirsi che nessuno dei ceti sociali rimase assente dinanzi ai problemi che tormentavano la società napoletana. Ai contadini, ali operai, agli artigiani, non manca la chiara consapevolezza della propria inferiorità economica; specialmente quando le leggi eversive sulla feudalità fanno balenare innanzi alla loro mente la speranza di un migliore tenore di vita, essi entrano nella lotta – sia pure, come talora accade, tumultuariamente , – per la conquista della terra, che li trasformerebbe in piccoli proprietari, e li metterebbe in condizione di aspirare alle cariche pubbliche, ad essi precluse.» (p. X)

Solo nell’ultimo capitolo si comprende il senso di quel «moltitudini rurali»: Demarco sottolinea lo scarso consenso e le aspettative disattese che portano «contadini e proprietari, popolo minuto e borghesi, operai e professionisti, per motivi diversi e talora opposti» (p. 183) a costituire un blocco sociale che mina alla base il Regno delle Due Sicilie e riesce a creare una fortissima aspettativa di libertà intorno alla figura di Garibaldi liberatore. Il finale è più che eloquente:

«In questo tramonto rosseggiante di ambizioni, di speranze, di odi, di furore, di desideri, di paure, si chiude il regno dell’ultimo sovrano delle Due Sicilie. Ma “scacciare un re dal trono non è rivoluzione; la rivoluzione si compie quando le istituzioni, gli interessi, su cui quel trono si poggiava, si cangiano”». (p. 184)

Enuclea molto chiaramente le maggiori mancanze della struttura socio-economica del Regno delle Due Sicilie, in tutto il periodo della sua esistenza (Restaurazione-Unità d’Italia).

  • Sostituzione della “borghesia rurale” ai vecchi baroni feudali;
  • ricostituzione, per la classe di cui sopra, di vastissime proprietà e conseguente mancanza di innovazione nelle tecniche di coltura, quindi dei possibili sviluppi agro-industriali;
  • mancanza cronica di capitali, che preferiscono prendere la strada di investimenti speculativi sul debito pubblico piuttosto che quella degli investimenti produttivi, dovuto anche ad un uso del credito di tipo feudale, gravato da tassi altissimi (per questo, l’investimento produttivo è reso ridicolo dal confronto con le prospettive di guadagno), per nulla mobile, moralmente poco accettato (considerato usura); mancanza, dunque, anche di appropriate strutture bancarie-finanziarie; (v. anche le pp. 95-96 sul Banco delle Due Sicilie, con le sue due Casse di Corte, la Cassa dei Privati e le succursali a Bari e poi – limitatamente alle Casse di Corte – anche a Messina e Palermo);

«Non si può dire che mancassero i capitali; essi, però, di preferenza, venivano investiti in titoli del debito pubblico, o in terreni, che davano un reddito più sicuro, anche se più modesto, in confronto alle speculazioni industriali. I detentori di capitali, in confronto alle speculazioni industriali. I detentori di capitali, preferivano persino tenerli inoperosi, anziché impiegarli in operazioni ritenute arrischiate; in tal modo, la circolazione lentissima rendeva necessaria, per le normali operazioni, una massa ingente di metallo monetato.» (Demarco, p. 86 → «si calcolava che nelle province napoletane circolassero monete per un valore di 80 milioni di ducati, – oltre 340 milioni di lire oro –, una circolazione doppia di quella di tutto il resto d’Italia, il che derivava non da una maggiore intensità di scambi, ma da una minore rapidità di circolazione» e una bassissima finanziarizzazione, aggiungerei io.)

«il debito pubblico, notava un contemporaneo, nel 1833, “questa incolmabile voragine, divoratrice delle ricchezze dell’universale, questo edifizio incantato, questo stabilimento di concentrazione e di ozio” deve cessare di attirare i capitali, di “provocare e sedurre i ricchi ed oziosi cittadini”, e i capitali riprenderanno il loro naturale movimento» (M. De Augustinis, Della condizione economica del Regno di Napoli, Napoli, 1833, p. 143-144, cit. in Demarco, p. 101)

  • si aggravano dunque le mancanze di incentivi a migliorare le coltivazioni (rincarano la dose: divieti d’esportazione della produzione agricola, soprattutto granaria – per mantenere bassi i prezzi ed evitare malcontento popolare3 –;
  • scarso o nullo intervento per migliorare la viabilità interna e quindi difficoltà di commercio interno (→ a questo tentano di rispondere le Società economiche?);

«Le comunicazioni interne furono per molto tempo trascurate, a causa della politica stessa del governo, che si sforzava di contenere le pubbliche spese. Le strade rimasero per molti anni in uno stato deplorevole e ciò, naturalmente, ostacolò il sorgere della grande industria bisognosa di vasti mercati e di una estesa rete di traffici, e rese costosi i trasporti per via di terra. Vi si incominciò a pensare solo durante il regno di Ferdinando II, e in questo periodo notevoli somme furono destinate alle opere pubbliche, e specialmente alla costruzione di strade. Ma alcune di esse, iniziate ai primi del secolo, erano ancora incompiute cinquant’anni dopo. La lentezza si doveva a molte rafioni, non soltanto a mancanza di mezzi finanziari. Spesso i lavori stradali venivano iniziati per lenire la disoccupazione degli abitanti che dopo un’annata di scarso raccolto, erano nell’indigenza; ma venuta meno la causa che aveva spinto il comune ad incominciare l’opera, questa veniva presto abbandonata.» (Demarco, p. 88)

  • politica tributaria mite, senza alcun tipo di re-investimento nelle infrastrutture del Regno (specie le vie di comunicazione), aggravata da pesanti dazi, da prezzi dei prodotti agricoli mantenuti artificialmente bassi, da imposte doganali in entrata che facevano invece crescere i prezzi dei manufatti esterni; è mite, anzi inesistente, anche la tassazione sui beni mobiliari, come precisa politica volta a non scoraggiare, né colpire in alcun modo la emergente borghesia agiata, i nuovi ricchi del Regno → questo dato va però “mitigato”: se è vero che lo Stato borbonico non si premura di attivare una cinghia di trasmissione che sappia catalizzare le energie commerciali e industriali del Regno a vantaggio dell’amministrazione pubblica e, quindi, della buona salute del Regno stesso, è pur vero che questo atteggiamento, invece che saldare questa emergente borghesia alla corona, la allontana sempre più, perché inadeguata a capirne le aspirazioni profonde (e manifeste: v. le Società economiche), che si possono riassumere nella trade: efficienza, pubblica utilità, libertà d’impresa. Es.: la burocrazia del Regno, in cui costoro avrebbero potuto trovare il loro posto, era mal retribuita e scarsamente considerata dal punto di vista sociale;
  • il commercio in generale è frenato oltre che dai problemi di viabilità, anche dalla difficoltà delle esportazioni, così come dalle differenze di pesi e misure a volte anche interni alla stessa provincia.

«Il regno delle Due Sicilie era uno dei paesi europei aventi il più basso commercio estero pro capite. Nel 1858, il commercio per aitante del regno, compresa la Sicilia, era di 6,52 ducati. Solo la Russia europea presentava un volume di commercio ancora inferiore, con 5,14 ducati per abitante. Se poi si prescinde dalla Sicilia, e si considerano le sole province continentali del regno, si trova che il commercio per abitante nell’ano 1858 era di soli 5,52 ducati. Questa cifra risulta assai tenue, in confronto ai 40,13 ducati degli Stati Sardi, ai 31,70 della Toscana, e anche i 9,06 dello Stato Pontificio.» (p. 91)

«Il fragore e lo spruzzo di quelle innumerevoli cascate e cascatine; il mormorar delle acque ad ogni istante rotte e controviate, e però fatte querule e spumanti; il cigolio confuso delle macchine e delle ruote; la vista delle adusate acque divenute a mille colori dalla varietà delle tinte; l’incontro di lane e di panni senza fine, di cenci e carte ammonticchiate; l’ingombro di carri e carrette in tutte le vie, per tutte le direzioni; tutto quanto vedi d’intorno ti addita che sei nella valle del lavoro e delle industrie, come già fu dell’ozio, del riposo, degli studii» (molto probabilmente: Giuseppe Maria Galanti, Nuova descrizione storica e geografica delle Sicilie, Napoli, 1787-1789, nessuna indicazione di pagina, cit. in D. Demarco, Il crollo del Regno delle due Sicilie, cit., p. 57-58).

Interessanti sono le esperienze delle Società economiche, sorta di centri di studio, coagulo di studiosi e (probabilmente) interessi economici, che si impegnano molto nella diffusione di conoscenze tecniche e non solo. Ne esisteva una anche in Abruzzo Ulteriore II (odierna prov. de L’Aquila circa, il cui presidente era negli anni Trenta il marchese Luigi Dragonetti4), ma quasi ogni distretto (intendenza?) ne ha una (anche questo è interessante: ricalcano sempre – almeno nei casi che ho incontrato – la divisione amministrativa borbonica post-napoleonidi). Le cita anche Bevilacqua, il quale (vado a memoria) ne ha anche studiate alcune da vicino. (Demarco vi dedica il par. 7 – La nuova borghesia intellettuale, pp. 104-121 – del cap. II).

«Da un canto, nella questione demaniale lo stato borbonico, come si è detto, rinuncia agli atteggiamenti di decisionismo radicale del regime francese e permette se non altro possibilità di manovra a ex-faudatari e amministratori. Inoltre, con il sostegno alle Società economiche lo stato borbonico vuole in qualche modo assicurarsi l’appoggio e il coinvolgimento di un’intelligencija locale in generiche politiche di sviluppo e di trasformazione agraria» (Costanza D’Elia, L’azione per l’agricoltura nel quadro del dirigismo borbonico: le opere pubbliche, in I. Zilli (cur.), Lo Stato e l’economia tra Restaurazione e Rivoluzione. L’Agricoltura (1815-1848), p. 6)

106: lamenti del canonico A. Scardapane, Presidente della Società economica di Abruzzo citra, 30 maggio 1824.

In generale, le manifatture e le iniziative industriali proliferano al momento di passaggio fra i secc. XVIII e XIX. Seta, lana, cotone5 e carta sono i settori più avanzati (non rari i primati: v. la “fabbrica” del francese Lefe(b)vre a Isola del Liri, presso Sora, per diverso tempo l’unica nella penisola ad aver introdotto la macchina senza fine6), seguiti poi dalle concerie, anche qui con risultati notevoli (i guanti bianchi di Napoli erano famosi in tutto il mondo).
Notare: c’è un discreto numero di stranieri (tedeschi, svizzeri, francesi, inglesi) che decide di investire nel Regno, anche spinti dalle protezioni e privative riservate a chiunque abbia la voglia di impiantare manifatture, spesso anche troppo facilmente ( = nel senso che a volte si proteggono anche manifatture inefficienti che, le prime a crollare con il 1861 e il liberismo piemontese).
Notare: dopo un primo momento di decadenza – direi fisiologico – delle manifatture all’indomani del blocco continentale, tornano a fiorire soprattutto negli anni Trenta (Demarco, p. 81). → piccola critica metodologica a Demarco: ogni volta questo tipo di considerazioni si poggiano sulle “testimonianze dei contemporanei”, ovvero gli scritti delle Società economiche sparse nel Regno (di solito riprese da letteratura più recente, di indirizzo “meridionalista” → ricontrollare se G. Arias lo è davvero; controllare infine l’apparato documentario posto in appendice, magari è solo l’uso di non citare esplicitamente i propri risultati).

Interventi borbonici a protezione dell’industria:

  • 1824: abolizione o drastica riduzione dei dazi in uscita, tranne che per olio, legumi, canapa e lino; inasprimento dei dazi in entrata su tessuti (in generale);
  • 1821: abolizione dei regolamenti sulle corporazioni, commercio libero tra la Sicilia e i domini al di qua del Faro, concessione deprezzata di locali a scopi industriali, manodopera a basso costo mantenuta in centri assistenziali (sarebbe interessante saperne di più)
  • alcuni errori tecnici che nessuno dimentica mai di notare: l’applicazione del dazio sulle quantità e non sui valori (I. Zilli, Introduzione, in Lo Stato e l’economia…, p.XXIV); in più gli interessi fiscali prevalevano sempre su quelli prettamente economici (Ibidem, p. XXX).

C’è da notare, inoltre, che l’incremento demografico permette la presenza di manodopera a basso costo, come accade per l’agricoltura e che nell’industria s’intreccia – aggravando la condizione operaia – con l’introduzione delle macchine: «in un paese privo di organizzazione operaie, il lavoro era abbandonato a se stesso e le basse mercedi lasciavano agl’imprenditori un ulteriore margine di profitto» (p. 83).

«Il povero minatore – scriveva l’ufficiale, da Pazzano, in data 13 giugno 1862 – che entra nella sotterranea galleria prima che sorga il sole e ne esce quando è già tramontato, non gode altra luce che quella del suo lucignolo, al contrario degli altri operai esso non è mai lieto, né v’ha dubbio che tu lo intenda intuonare (sic!) la canzone che ad ogni altro lavoratore addolcisce il travaglio. L’aria chiusa e pregna di gas nocivi che egli respira lo rende pallido e malaticcio, ed ha perciò vita molto breve. Con tutto ciò egli non guadagna che 25 soldi al giorno. Quello poi che mi commosse maggiormente fu il vedere la durezza nel travaglio a cui soggiacciono i garzoni minatori. Questi sono fanciulli di 12 o 14 anni che debbono portare fuori il minerale; un cesto di vimini pende dalle loro spalle; dentro al quale trasportano da 40 a 50 kg, di ferro. Questo peso enorme per un fanciullo di quella età li fa camminare curvi e quasi carponi, e ferisce e scortica loro tutta la schiena. Uno di questi mi fermò nel mezzo di una galleria ed ansante per la fatica mi disse: – “Guardate Capitano le mie spalle”; esse erano coperte di piaghe, alcune delle quali recenti gettavano sangue. Il fanciullo proseguì: – “ I minatori pretendono che si facciano 25 viaggi, non è possibile resistere a tanta fatica, e noi ci sentiamo morire, abbiate pietà di noi! ”» (Dalla Calabria nel 1862. Lettere del capo. Luigi Maccaferri, estr. da «Brutium», n. 2/1934, pp. 12-13, cit. in. Demarco, p. 137)

3 Cui si aggiungono i divieti d’esportazione negli anni di scarso raccolto → politica annonaria.

4 Viene notato in Demarco, p. 108 come un’eccezione: non si preoccupa tanto del libero scambio, quanto della distribuzione delle ricchezze. Potrebbe essere interessante approfondire. Riportato in Demarco: «La felicità di uno stato, egli affermava, “dipende meno dalla quantità de’ prodotti, di quello che dal loro saggio ripartimento”. La libera concorrenza fu per il volgo degli economisti il non plus ultra della sapienza umana applicata all’arte di governare, Ma quali i risultati? Cinque lustri di esperienza hanno rovesciato le fortune private, resi abituali i fallimenti, riempito le città industriose di “fame” e “sedizione” “eccitato cruente rivalità di nazioni, soprusi e violazioni dei diritti più santi, tramutato il consorzio umano in tanti campi nemici, incoraggiato l’accrescimento delle popolazioni, solo per preparare un più sontuosa ecatombe alla morte… Ecco un saggio de’ beni derivati all’umanità dalla libera concorrenza, ch’è il più sicuro degli espedienti per nudrire (sic!) l’abitudine degli odi, principalissima cagione dell’immoralità di un popolo…”. Per contro sostituite al principio della libera concorrenza “lo spirito d’associazione”, e vedrete di che cosa sia capace “l’industria in fatto di moralità e di concordia», L. Dragonetti, Dell’industria considerata nelle sue attinenze con la pubblica amministrazione, in «Il Progresso delle scienze, lettere e arti», a. I, 1832, vol. II, p. 123, cit. in Demarco, p. 108. Interessante anche la continuazione nelle pp. ss.

5 Queste ultime due, come anche altre manifatture, rivitalizzate e favorite nel periodo napoleonico proprio grazie al blocco continentale, quindi alla liberazione del «paese dal pericolo della concorrenza commerciale inglese», D. Demarco, Il crollo del Regno delle Due Sicilie, cit., p. 80.

6 Demarco, p. 68-69; contava oltre 2000 operai, cfr. Bevilacqua, p. 27.

Piero Bevilacqua

Breve storia dell’Italia meridionale: dall’Ottocento a oggi, Donzelli, Roma 1993.

  • condivide (con Demarco) l’interpretazione del “cambio di guardia” come una sostanziale sostituzione dei ceti borghesi (rurali) al baronaggio, di cui «erediteranno e rinnoveranno culture e comportamenti politici che erano appartenuti al dominio del baronaggio» (p. 6); però la attenua: «È pur vero che in non pochi di questi casi la terra non andò a ricostituire gli antichi latifondi – come un po’ indiscriminatamente lamentavano alcuni contemporanei – ma servì ad integrare e arrotondare proprietà già esistenti, talora piccole e medie.» (p. 5)
  • p. 17-18: commercio passivo → dipendenza dai mercanti stranieri (prima Veneziani e Genovesi, poi Inglesi), nonostante la grande capacità agronomica, il Regno di Napoli mostra da sempre grani difficoltà nel commerciare i proprio prodotti, così come nello sviluppare un proprio commercio indipendente.
  • Rivoluzione agricola:

«La rivoluzione agricola fu dunque anche una profonda ristrutturazione della società rurale, accompagnandosi a due serie di trasformazioni che riguardavano le tecniche e le piante coltivate: da un lato migliori strumenti aratori, più efficaci sistemi di semina, acquisto sul mercato di sementi selezionate, dall’altro l’inserimento nei sistemi di rotazione di nuove piante ad alta produttività (la patata e, nell’area mediterranea, il mais). Per molti aspetti si trattò di una rivoluzione ininterrotta che si protrasse su scala mondiale per il XIX secolo e anche dopo, venendosi a intrecciare con le possibilità tecnologiche offerte dall’industrializzazione.» (S. Guarracino, Rivoluzione agricola, in Dizionario di storia moderna e contemporanea, in pbmstoria.it)

  • Sia i Napoleonidi, sia la restaurata monarchia borbonica mettono in atto politiche economiche di protezione (soprattutto doganale) e di incoraggiamento delle attività industriali, che verranno completamente sovvertite al momento della costituzione del Regno d’Italia sotto i Savoia. Solo poi (dal 1887) si riprende una politica di respiro protezionistico a vocazione industriale ed è questo il momento in cui l’Italia si avvia sul serio verso la strada dell’industrializzazione.

«In realtà la protezione borbonica, tanto deprecata dagli storici di ispirazione liberistica, mostra sostanzialmente una cosa sola: allorché, pur fra tante difficoltà, incoerenze e debolezze, venne condotta una politica industriale – entro una congiuntura internazionale propizia – essa diede frutti non occasionali né effimeri anche nel Mezzogiorno d’Italia. Alla luce di quanto la storia e le scienze sociali sono oggi in grado di mostrare, l’esperienza del Mezzogiorno conferma che l’industrializzazione solo in parte è un fenomeno spontaneo di pure forze economiche: in larga misura essa è o può essere il risultato di organizzazione e di strategie consapevoli tanto dei privati che delle istituzioni statali, soprattutto in realtà periferiche rispetto ai centri più avanzati dello sviluppo.» (p. 30-31)

  • Da qui passa a soppesare i limiti dello sviluppo industriale del Mezzogiorno, decostruendo quelli che solitamente sono considerati i limiti “strutturali” dell’industria meridionale:
    • protezione doganale: vedi sopra;
    • sviluppo locale: ma la moderna storiografia dimostra che anche l’Inghilterra in realtà vede il fiorire della sua industria per una serie di “congiunture locali”, «cioè alla possibilità, presente in determinati luoghi, di utilizzare l’acqua e il carbone come una forza motrice, le strade e i canali per i trasporti ecc.» (p. 30), che poi si generalizzano;
      Individuando, così, motivazioni alternative:
    • ristrettezza del ceto imprenditoriale: «i grandi uomini d’affari che trovavano più conveniente dedicarsi ai commerci sicuri, agli approvvigionamenti dell’annona della città di Napoli, alla gestione del fisco e ad altre attività che si muovevano all’ombra dello stato» (p. 31) → quindi per B. la questione dell’accumulazione non è primaria
    • ristrettezza del mercato interno: di conseguenza cade la motivazione anti-gramsciana di Romeo → una più coraggiosa redistribuzione delle terre avrebbe portato ad un aumento dei consumi del ceto contadino, quindi l’impossibilità dell’accumulazione primitiva
    • passività del ceto mercantile meridionale nel creare relazioni di commercio internazionale (insieme causa ed effetto della posizione sempre più marginale del Regno rispetto alle potenze europee industrializzate)
  • Imposizione fiscale: ricontrollare magari su Meriggi. Incrocia i dati del Decennio, della Restaurazione e infine del Regno d’Italia.

A proposito del discorso liberismo (anni ’60) e protezionismo (1887…), alcuni spunti parzialmente sparsi:

«C’è, infine, un punto della legislazione liberale che merita una considerazione speciale. I governi borbonici, fra gli anni trenta e cinquanta, avevano elaborato un complesso di leggi e messo in atto una politica di grande coraggio e modernità, che tendeva a coinvolgere strettamente i proprietari fondiari nell’opera di realizzazione e gestione della bonifica. Questi ultimi erano chiamati attivamente a collaborare, ciascuno seconda la ricchezza fondiaria posseduta, al risanamento generale del territorio, insieme alla valorizzazione agraria dei propri fondi. L’interesse privato era chiamato così a svolgere una parte importante a favore dell’interesse generale, soprattutto in un ambiente in cui la malaria costituiva una minaccia alla salute di tutti. Attività produttiva e accumulazione privata della ricchezza non potevano essere considerati come fatti economici solitari e isolati, ma come forme di sfruttamento del territorio in quanto bene comune, che perciò richiedeva un impegno collettivo di gestione» (p. 57-58).

Vanno notati due tentativi di inversione della tendenza generale che si può rimproverare alla classe politica risorgimentale all’indomani dell’unità:

  1. la cesura rappresentata dalla legge del 1887 (dazi e protezioni doganali) → Romeo (Capitalismo e Risorgimento) ne metteva in luce alcuni punti critici, che chiama direttamente “errori tecnici” o cose del genere (ritrovare)
  2. gli interventi speciali dei primi del Novecento: una sorta di legislazione speciale consistente in agevolazioni e sgravi fiscali che parte già nel 1901
    1. 7 luglio: «si assegnava al Banco di Napoli, tramite la propria Cassa di risparmio, il compito di provvedere al credito agricolo nelle province meridionali», p. 88);
    2. prosegue con il 1904 («Provvedimenti speciali per Napoli» «venivano adottati sgravi fiscali sui consumi popolari, si stabilì un’esenzione decennale dei dazi doganali per tutti i materiali da costruzione, per le macchine e per tutte le strutture utili al primo impianto di industrie nella città di Napoli. I “Provvedimenti” autorizzavano altresì il governo a riservare per un periodo di dieci anni, agli stabilimenti meccanici esistenti nel comune, la costruzione di materiale mobile ferroviario per una quantità non minore di un ottavo del materiale che sarebbe stato ordinato per conto dello stato» (p. 88) → sarebbe estremamente interessante mettere a confronto questa esperienza sia con le “privative” borboniche, sia con l’intervento speciale repubblicano dagli anni Cinquanta in poi;
    3. poi ancora nel 1904 (simili provvedimenti in Basilicata), 1905 (Calabria) e 1906 (tutte le province meridionali).

«È da precisare, tuttavia, che tali misure di intervento speciale non ebbero in seguito la stessa efficacia dei provvedimenti adottati per Napoli. Iniziative legislative così larghe e generalizzate finirono ben presto per non trovare un adeguato sostegno finanziario da parte dello stato, così che le leggi, dopo le prime realizzazioni (costruzioni di strade, acquedotti ecc.) finivano ben presto col rimanere sulla carta.» (p. 89)

Ancora sugli interventi dello Stato. Da notare il par. 6. (La conquista delle pianure e l’involuzione demografica) del cap. III (Dalla crisi agraria al fascismo), ma soprattutto a fondo libro la nota bibliografica, per l’attenzione che si dà al processo della bonifica come piano d’intervento organico e totale. «La bonifica dunque come opera di “integrale riforma” del territorio, destinata non a mettere semplicemente in piedi una qualsiasi opera pubblica, ma di trasformare radicalmente un intero ambiente» (p. 91)

Poi ci sarebbe da aprire tutto il discorso degli anni Cinquanta, dalla riforma agraria alla Cassa per il Mezzogiorno, ma si andrebbe paurosamente “fuori tema”.

Alcuni dati sparsi:

  • nel 1905 gli impiegati nella produzione industriale in Italia sono 1 389 921 unità, di cui ben 322 416 solo al Sud (poco più del 23%); nel 1911 gli impiegati totali sono passati a 2 304 438 unità, di cui solo 329 704 sono al Sud (poco più del 14%); nel 1927, infine, il totale ammonta a 3 391 310 unità, mentre i meridionali impiegati nell’industria sono 416 000 (poco più del 12%) (Bevilacqua, p. 66).
  • Nel 1957 venne stabilito che le «amministrazioni dello stato dovessero riservare a imprese meridionali il 30% delle forniture e lavorazioni occorrenti, Alle regioni meridionali doveva inoltre essere riservato il 40% degli investimenti eseguiti dalle amministrazioni; infine, le imprese industriali a partecipazione statale dovevano ubicare nell’area meridionale una frazione fissa di nuovi impianti: il 60% del totale. Sempre a partire dal 1957 venne autorizzata la costituzione di consorzi fra enti locali per la creazione e la gestione, tramite sussidio e assistenza della Cassa, di “aree di sviluppo” industriali, oppure, dove le opportunità locali apparivano più limitate, la istituzione di ristretti “nuclei di sviluppo”» (Bevilacqua, p. 103)

Considerazioni (anti)meridionaliste:
È necessario, secondo Bevilacqua, evitare di vedere alla storia del Mezzogiorno con la lente dell’arretratezza o, peggio ancora, dell’immobilità socio-economica. È il vizio di un dibattito storiografico dominato dal problema prima politico e poi storico della «questione meridionale», da cui bisogna parzialmente distaccarsi per vedere in maniera nuova, quindi parzialmente diversa, la storia del Meridione.

«Sarebbe sicuramente ingiusto, oltre che storicamente infondato, sostenere – come pure fu sostenuto da alcuni meridionalisti, nel fuoco delle polemiche dei primi decenni del Novecento, ma anche in tempi più recenti – che il Nord si industrializzò a spese del Sud. Né è tanto meno sostenibile che allora si sia realizzata nei confronti delle regioni meridionali una sorta di politica coloniale, in base alla quale il Sud, lasciato nelle sue strutture agricole, abbia svolto il ruolo di mercato dei prodotti industriali del Nord e di fornitore di materie prime. Le cose sono alquanto più complicate. Intanto, occorre dire che le regioni settentrionali (peraltro una porzione limitata di esse) giunsero all’industrializzazione per merito proprio e per una serie di ragioni storiche, geografiche e anche politiche a cui abbiamo anche noi in precedenza accennato. L’«arretratezza» del Sud non fu una condizione dell’industrializzazione del Nord. Certo, come del resto in parte si è visto, le economie industriali si avvantaggiarono non poco del contributo indiretto delle popolazioni meridionali: in primo luogo attraverso le rimesse degli emigrati (senza tuttavia dimenticare che anche le regioni del Nord d’Italia diedero un contributo rilevante all’esodo); in secondo luogo per la possibilità di smerciare i propri prodotti nelle regioni del Mezzogiorno senza dover temere agguerrite concorrenze interne. Ma tali vantaggi, benché importanti, se rappresentarono degli elementi contemporanei di freno e di svantaggio per la crescita dell’economia meridionale – perché la forzarono verso investimenti di carattere agricolo e ne scoraggiarono le iniziative di carattere manifatturiero – in nessun caso costituirono la condizione dello sviluppo industriale del Nord» (p. 67)

Altri spunti interessanti:

«Debolmente toccate dal processo di industrializzazione per poli furono invece, in quella fase, tre regioni del Mezzogiorno continentale: l’Abruzzo e il Molise, la Basilicata e la Calabria. Sulla carta geografica dell’industrializzazione pianificata una nuova gerarchia regionale e nuove marginaità all’interno dello stesso Mezzogiorno». (p. 104)

60-62: emigrazione: suo peso nei “ritorni” di denari dall’estero.

Antonio Gramsci

Quaderni del carcere (Quaderno 19 (X)), Einaudi, Torino 2007, pp. 1157-2078.

individua nella mancanza di una vera e propria epoca del mercantilismo la maggiore facilità con cui si fece l’unificazione: «il mercantilismo avrebbe, se organicamente sviluppata, rese ancora più profonde e forse definitive, le divisioni in Stati regionali» (p. 1961). Per Gramsci, il mercantilismo va inquadrato in una cornice complementare alla formazione delle monarchie nazionali, come assi di cristallizzazione di interessi vari (pp. 1960-1961). Questo per dire che in Italia non c’è stato un vero e proprio mercantilismo, altrimenti, non ci sarebbe stata l’Unità. Ricorda: nella concezione del materialismo storico i fatti sono concatenati da «nessi di necessità storica» (p. 1961).

D. Mack Smith-F. Milone

D. Mck Smith, The peasants’ revolt of Sicily in 1860
F. Milone, Le industrie del Mezzogiorno all’unificazione dell’Italia, in A.A. V.V., Studi in onore di Gino Luzzatto, vol III, Giuffré, Milano 1950.
Qui si trova l’indice online.

in A.A. V.V., Studi in onore di Gino Luzzatto, vol III, Giuffré, Milano 1950.

Il saggio è raccolto in un volume del 1950 in onore del grande studioso italiano di storia economia. Ci sono contributi che spaziano dalla storia politica all’economica, anche con toni e accenti molto differenziati.

«Notwithstanding a notable increase in Sicilian trade in the ten years before 1860, agricolture remained barely out of its nomad, «extensive» stage: indeed it was probably worse than it had been in Arab days, without irrigation or carriage-ways, and with a hand-kissing population of serfs.» (p. 201)

In relazione alla tesi di Gramsci: «Today we may know that the fractional division of latifondi into piccola proprietà was never by itself the solution to cultivation problems» (p. 202)

Ancora sulle classi sociali:

«It is broadly true that this year is the most important moment in the change over from government by church, army and aristocracy to government by the professional, mercantile and landowning gentry. But the old Sicilian aristocrats had been degenerating, even since before the time of king Joseph Bonaparte at Naples, into a noblesse titrèe worse instructed than their inferiors. They were reluctant themselves to enter commerce, the chirch or the profession, and the Bourbons would not readily admit them to army; so they were usually poor, idle, without either political knowledge or political courage, and were in revolutions at the mercy of demagogues. The new succession laws and the abolition of entails between 1812 and 1819 had permitted the fragmentation of property, and the post-war depression after the artificial stimulus of the English occupation had hit the big landed families. Their estates were now smaller and often mortgaged, their political influence was largely gone.» (p. 202)

Risorgimento della “classe media”:

«It is today a commonplace that the Risorgimento was a middle class movement, against wich the reaction was to be composed of peasants led by the aristocracy. The events of 1860 in Sicily will substantiate this thesis. But of all classes the borghesi most defy generalization. There was for instance one big distinction between the landowning and non-landowning middle classes. The former was composed of Goodwin’s 20,000 families, and in many or most cases opposed the revolution until Garibalsi became the best available defence of law and order. But the professional classes of the town stood with the more educated and travelled aristocrats for Italia Unita. […] In Garibaldi’s Mille there were n peasants or aristocrats. Among the leading Sicilian revolutionaries there were the physician La Loggia, Monsignor Ugdulena he eminent canon lawyer, Amari the great medieval historian, La Lumia the archivist and litterato, Errante the professor of litterature, Lanza the monk, Orsini the professional soldier, Crispi the lawyer.»

Abbandonato. La parte sull’industria è dichiaratamente poco approfondita. Quella sulla rivolte contadine siciliane mi porta troppo fuori strada.

Vera Zamagni

Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia (1861-1990), il Mulino, Bologna 1990.

Utile soprattutto per l’apparato statistico.

Prendo in considerazione solo la lunga introduzione. I richiami bibliografici sono utili e richiamano non solo i dibattiti più sentiti intorno ad alcune questioni problematiche, ma anche numerosi saggi dove poter trovare dati e statistiche. Per molti aspetti richiama testi che ho già preso in considerazione.
Notevole l’incipit:

«Non si può affermare che esistano paesi con vocazione allo sviluppo e altri destinati alla stagnazione, ma ogni popolazione ha sempre cercato di migliorare le proprie condizioni, salvo venirne impedita da eventi naturali, da scontri politico-militari o dal cristallizzarsi di istituzioni e centri di potere nocivi per la crescita, come è stato recentemente riaffermato da Jones.» (p.15)

Alberto De Bernardi-Luigi Ganapini

Storia dell’Italia unita, Garzanti, Milano 2010.

Prendo in considerazione solo la Parte Terza (a cura di A. De Bernardi): La crescita economica e i modelli di sviluppo; cap. 8 Una periferia europea in movimento.
Utile soprattutto come sintesi e visione d’insieme.

Alcuni appunti sparsi:

  • Wallersein parla di un’eccesso di anticipo della penisola italiana nella transizione da feudalesimo a capitalismo, cosa che non ha permesso di sostenere, in un torno di tempo troppo elevato, il peso di questo passaggio; trasformandosi – a lungo andare – in quel lento declino che l’Italia attraversa tra il XVI e il XVIII sec. (v. a questo proposito soprattutto M. Aymard → Storia d’Italia, Einaudi)
    Utili le schede sulla società «contadino-proprietaria» (pp. 426-428) e quella sulla «rivoluzione agraria» (p. 439-440).
  • Rimandi importanti:
    Luciano Cafagna, Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Marsilio, Venezia 1989.
    Bruno Caizzi, Storia dell’industria italiana dal XVIII secolo ai nostri giorni, Einaudi, Torino 1965.

Marco Meriggi

Gli Stati italiani prima dell’Unità. Una storia istituzionale, Bologna 2002

(Si rivela interessante anche dal mio punto di vista… lo studio sul serio.)

Domanda iniziale (quasi retorica): si può scorgere una linea di continuità forte che unisce il periodo rivoluzionario (1796-99) nella penisola alla Restaurazione e, infine, al processo di unificazione della penisola?

Suggestioni:

«Centralità, luminosità, efficienza dell’amministrazione: obiettivi apparentemente neutri e tutti tecnici, di per sé poco idonei a suscitare passioni, slanci ideali, ancoramenti ideologici; eppure è nella costellazione da questi delineata che gli informatori italiani di Metternich parevano riconoscere, agli esordi della restaurazione, il riverbero più intenso e durevole delle aspirazioni rivoluzionarie che avevano coltivato, in giovane età, tra fine Settecento e i primi anni del secolo seguente ...» (p. 14)

Interessante il riferimento al «partito moderato». Questo è fatto dai «più aperti e disinibiti» elementi della vecchia aristocrazia, i quali si uniscono ai «patrioti» rivoluzionari nella lotta al dispotismo, perché riconoscono nei governi di fine Settecento (in rapida involuzione dopo una fase di monarchia illuminata in tutta la penisola, tranne che nella Lombardia e la Toscana asburgiche) un ostacolo alla loro libertà cetuale, ridotta a mera forma, senza alcuna autonomia sostanziale. Questi elementi, di fronte alle costituzioni “rivoluzionarie” (specie quella del 1795, che ristabilisce il fulcro sui proprietari, dopo la fase di terrore roberspierriano) nutrono una certa simpatia: cosa c’è da temere del nuovo ordine repubblicano – afferma Francesco Melzi d’Eril, patrizio milanese, « quando la sola reale qualità vostra, quella di proprietarij, viene ad essevi garantita siccome lo scopo principale del patto sociale […]? » (p. 25-26).

A Napoli: raro caso di partecipazione di aristocratici, non come singoli, alle posizione democratiche, a sfatare il binomio aristocrazia-moderatismo; ma questa è solo quella parte di aristocrazia “marginale” nel contesto del regno, ovvero l’aristocrazia cittadina della sola Napoli.

Quindi: valore dell’amministrazione (monarchia amministrativa → forza del diritto dell’esecutivo) come terreno di convergenza fra: ex-rivoluzionari “giacobini”, che si trasformano – per paura di un reazione meramente sanfedista – in bonapartisti; dunque nuovi protagonisti “sociali” (carriera militare, ma anche civile: dotti, borghesia, funzionari statali) nel decennio francese e, infine, élite illuminata austriaca che conduce una Restaurazione sui generis e cioè che non vuole semplicemente portare indietro le lancette dell’orologio, ma conservare il più possibile quanto di buono l’amministrazione napoleonica aveva portato a termine: eversione della feudalità, uniformazione e razionalizzazione del territorio, diritto dell’esecutivo e uniformità dei codici, rappresentanza sociale e controllo dall’alto, quindi senza nulla concedere ai nostalgici dell’antico regime, se non alcune formalità che non ne soddisfacessero però le aspirazioni profonde.

Nella Sicilia che tra il 1806 e il 1815 aveva offerto riparo ai Borboni fuggiti da Napoli, per esempio, temprandosi nel prolungato conflitto dei baroni, s’era formato un «partito», guidato da Luigi de’ Medici e Donato Tommasi, che osservava con vigile attenzione quanto Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat stavano realizzando nella parte continentale del regno, e che tendeva a leggere in esso sostanzialmente l’efficace inveramento dei vani sforzi tardo-settecenteschi del governo regio di sottrarsi alle vischiosità della giurisdizione cetuale e togata.
Uomini come Medici e Tommasi, formatisi alla scuola dell’illuminismo napoletano, già nel 1813, quando la caduta del regno murattiano era lontana dal poter essere considerata imminente, premevano sul re affinché l’eventuale riacquisizione da parte del Borbone del Mezzogiorno continentale non si traducesse in un ritorno allo statu quo ante al 1806. Al contrario: «Ciò che è stato stabilito, ed a cui si sono avvezzati gli animi per otto anni, deve lasciarsi […] d’altronde moltissime sono le istituzioni utili. Talune disposte e preparate prima di partire da S.M.» (p. 122, la cit. è spiegata in nota (9): Così Donato Tommasi, citato in R. Feola, Dall’illuminismo alla restaurazione. Donato Tommasi e la legislazione delle Sicilie, Napoli, Jovene, 1977, p. 178.)

Luigi De Matteo

Stato e industria nel Mezzogiorno, in I. Zilli (cur.), Lo Stato e l’economia tra Restaurazione e rivoluzione: II. l’industria, la finanza e i servizi (1815-1848), op. cit., pp. 9-39.

tieni a mente per la questione della divisione analitica: industria protetta / assistita.

 

A proposito del mancato appello al “popolo”, mi sovvengono un paio di domande (alle quali non ho risposta): in che termini Manin rifiutò l’appoggio popolare nel ‘48? E’ effettivamente assimilabile all’azione garibaldina? Allargherei la similitudine alla (mancata) difesa di Milano sul finire della prima fase della prima guerra d’indipendenza, ma mi chiederei poi: e la Repubblica Romana del ‘49? Garibaldi e Mazzini la pensano in un modo in quel frangente e modificano poi la propria azione, o anche lì l’apporto “popolare” non gioca alcun ruolo/viene rifiutato?

 
 

Non ne ho idea. Se trovo qualcosa, aggiorno la discussione.

[aggiornamento] Forse Paolo Viola può fornirci qualche spunto di risposta, seppur minimo:
« Nel Quarantanove era stata la volta dei democratici; e anch’essi avevano visto fallire le proprie speranze. La “guerra di popolo” di stampo mazziniano era stata combattuta ai margini della prima guerra di Indipendenza; si era tradotta in risultato politico nelle tre repubbliche democratiche di Roma, Firenze e Venezia; ma alla fine era stata sconfitta dalla repressione congiunta della Francia e dell’Austria. Isolati e minoritari com’erano, anche i democratici non sembravano capaci di mettersi alla testa di un movimento politico vittorioso di riscossa nazionale. Del resto erano divisi. Molti di loro erano mazziniani, e volevano una repubblica unitaria. Ma c’era anche chi pensava ad una repubblica federale, come il grande intellettuale milanese Carlo Cattaneo (1801-69), che nel ‘48 aveva partecipato da dirigente all’insurrezione del capoluogo lombardo, e poi era dovuto andare in esilio in quella Svizzera federale che tanto ammirava. E c’erano repubblicani che per realismo erano disposti ad allearsi con la casa Savoia, e quindi a sottomettersi temporaneamente ad una prospettiva monarchica. Nel 1857 diedero vita, ovviamente a Torino, alla “Società nazionale”: fra questi c’era Daniele Manin, l’eroe della resistenza veneziana, Giuseppe Garibaldi, che aveva combattuto per difendere Roma, Giuseppe La Farina (1815-63), che era stato a capo del governo provvisorio palermitano » (p. 138-9).

Questo, in parte, può venire in aiuto rispondendo all’ultima domanda che poni: effettivamente sì, almeno per Garibaldi, dal ‘49 romano ai Mille qualcosa è cambiato. Insieme a (e al fianco di) chi il ’48 l’aveva fatto sulle barricate (anche Manin, del quale “respingimento” però, non so nulla → controllare). Qualche lume in più si potrebbe trovare in Paul Ginsborg, Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848-49; oppure in Id, Risorgimento rivoluzionario. Mito e realtà di una ‘guerra di popolo’, in Storia e dossier, n. 47, 1991, pp. 61-97 (l’ho trovato citato qui e quell’annata si trova in dipartimento).

A titolo di esempio, pure parzialmene diverso, ancora da Viola:
« La Sicilia costiuiva un caso un po’ a parte, abbastanza isolato dal contesto europeo. Alla rivoluzione avevano preso parte anche bande irregolari nelle campagne: » (ecco, qusto ci dice qualcosa della ‘guerra di popolo’ in Italia e in Europa) « un modo di resistenza contadina a metà strada fra guerriglia politica, lotta per la terra e criminalità » (quanto su questa visione giochi la proiezione all’indietro del brigantaggio, non lo so perché non conosco studi approfonditi, e infatti:) « Questi banditi erano però alleati imbarazzanti per i rivoluzionari radicali che avevano cacciato i Borboni fin dal gennaio del ‘48, primi in Europa. Perciò i democratici avevano dovuto lasciare il campo alla vecchia classe dirigente indipendentista, espressione degli interessi dell’aristocrazia: quelle stesse forze politiche che quarant’anni prima avevano ottenuto dagli inglesi la costituzione del 1812, e avevano diretto i moti separatisti del ’20 » (pp. 98-99).

Provo a tirare le somme (non avendo possibilità di consultare ulteriori fonti sull’argomento): siamo in presenza di un movimento per lo più intellettuale, la cui radicalità si misura con la concretezza di un Partito d’Azione così fatto. Tanto è stato scritto sull’estrazione sociale di quel popolo che Mazzini immaginava: artigiano-mercantile, quello genovese di cui era a conoscenza diretta, quindi a cui si rivolgeva pensando al sollevamento contro il giogo straniero. Tutto ciò in presenza di richiami espliciti alla coesione sociale della nazione, nel più ampio senso possibile, tanto che laddove si mobilita a pieno la massa popolare (Sicilia), essa diventa fonte d’imbarazzo per i dirigenti democratici (ma qui si aprirebbe un’altra domanda: quanto l’atteggiamento dei democratico-liberali siciliani è simile (forma mentis?) a quello dei repubblicani in questo contesto?). E quanto questo poi si può vedere realizzato nella volontà politica di “fare l’Italia a tutti i costi” (se va male un metodo (il Quarantotto), allora si può/deve diventare realisti e farla sotto le insegne dei Savoia)?

 
 

Alfré, hai mica visto questo articolo di Varni?

 
 

Oggi passeggiavo alla Feltrinelli e ho visto nel reparto storia un libro di Marco Meriggi edito dal Mulino: “Gli stati italiani prima dell’unità”. Credo sia essenzialmente una storia istituzionale, ma forse qualcosa di interessante potrebbe esserci.

 
 

grazie mille! Ancora non ho scritto qui la bibliografia che mi hanno consigliato De bernardi e Tolomelli, ma c’era anche questo. Al prossimo aggiornamento, scrivo tutto.

 
 

quel libro se serve a qualcuno ce l ho io qua bolo…

 
 

Bene. Riprendo ad aggiornare questa pagina con il lavoro un po’ confuso che sto facendo. Grazie Carlo per Meriggi. Grazie Jacopo per quello di Varni, interessante in alcuni punti.. e poi anche come discorso più in generale per la questione del contributo del Partito d’Azione.

Continuate con spunti e critiche!

 
 

Avendo colpevolmente trascurato la parte dedicata alla storia economica e allo sviluppo blabla
.. ,mi limito a rilanciare sul punto della partecipazione delle masse popolari: perché no l’oramai superato e di veduta un po’ chiusa “Proletari senza rivoluzione” di Renzo Del Carria: negli anni Settanta, questa storia militante/rilettura della storia nazionale si è dimostrato utile per cercare di comprendere il ruolo giocato dalle classi popolari.
sarà frutto di una visione predeterminata?avrà ragione in qualche punto? un po’ di sano marxismo-leninismo non ha mai fatto male a nessuno!

 
 

Andrà recuperato, eminenza!

 
 

Ma quindi, facce capi’: che ce dovemo mette’ sul sito? La tesina tutta, no. Dobbiamo tagliarla noi? Oppure mettiamo su solo il primo pezzo? O lo fai tu? Chi ci spingerà a fare questo?

 
 

Avevo scritto qui

«No. Ne abbiamo discusso io e Jacopo F. perché per ora siamo riusciti a incontrarci solo con lui per la correzione di bozze. Avevamo deciso di stagliuzzare alcune cose e comprimere tutta la prima parte per lasciare più spazio alla lettura dell’ultimo paragrafo, che è quello più interessante (forse).
Entro uno-due giorni ci metto le mani ed è pronto.»

E infatti ora sto caricando la versione definitiva, stagliuzzata (6 pp., 26.000 battute) e ridotta. Ho avuto modo di recepire sia i consigli di Frey che quelli della Tolomelli (visto che era la tesina per il suo esame) e quindi c’ho messo un po’ più tempo a finire l’articolo. Scusate!

 
   

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