Ho passato la mia prima settimana in Palestina fra gli alberi. Ogni mattina mi alzo all’alba per incamminarmi con gli agricoltori verso i loro uliveti, dove ci arrampichiamo sugli alberi vecchissimi e ci riempiamo le camicie di olive, prendendoci ogni tanto una pausa per sorseggiare del tè fresco alla salvia e ammirare il paesaggio. È autunno, il tempo della raccolta delle olive, quando centinaia di migliaia di alberi d’olivo scoppiano di purpurei frutti maturi pronti per essere colti e marinati, oppure pressati per ricavarne olio d’oliva fresco.
Da molte generazioni i coltivatori Palestinesi del luogo dipendono dalla raccolta annuale come fonte di guadagno principale per il sostentamento delle loro famiglie. Ma adesso molti coltivatori dicono di aver paura ad avvicinarsi da soli ai loro alberi. Sono stati traumatizzati da ripetute violenze da parte di soldati e coloni armati Israeliani, che da decenni pattugliano la terra dei Palestinesi per garantire la protezione e l’espansione degli insediamenti per soli Ebrei.
Gli insediamenti sono città o comunità fondate da Israele esclusivamente per gli Ebrei, su terra Palestinese riconosciuta a livello internazionale. Gli insediamenti Israeliani violano l’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra, che proibisce a una potenza occupante di trasferire membri della propria popolazione nel territorio occupato, in questo caso la West Bank, la Striscia di Gaza e Gerusalemme Est. In molte lingue, come il Francese, il termine generico per “insediamento” indica allo stesso tempo “colonia”. Ma in Inglese e in Ebraico viene usata una parola più benevola: le persone che vivono negli insediamenti [settlements] sono chiamate “settlers”, e non “colonizers” [coloni, colonizzatori]. A dispetto del diritto internazionale Israele condona le colonie illegali, ma non solo: sostiene attivamente la loro creazione ed espansione. Ad esempio il governo di Israele sovvenziona le spese per la casa, l’acqua, l’elettricità, i trasporti, e molti altri servizi destinati ai coloni. Siccome gli insediamenti sono stati dichiarati “aree a priorità nazionale”, le colonie illegali hanno diritto al 65% di finanziamenti in più rispetto alle amministrazioni locali di Israele. Il governo Israeliano fornisce assistenza finanziaria ai coloni, permettendo loro di affittare terreni a prezzi più bassi del loro valore reale. Sempre nelle colonie, per invogliare nuovi cittadini Ebrei a diventare parte della presenza occupante, Israele offre anche esenzioni fiscali, incentivi alle imprese, istruzione pubblica e finanziamenti dei mutui fino al 95%. Più la popolazione Israeliana nella West Bank si ingrandisce, più la rivendicazione di quella terra da parte di Israele acquista forza.
Su una strada Israeliana fuori dalla colonia di Ariel, vicino a casa nostra, un cartellone pubblicitario in Ebraico annuncia ai passanti: “E’ il momento giusto per trasferirsi ad Ariel. Unisciti alla nostra comunità, e riceverai 100.000 Nuovi Shekel Israeliani.” E’ l’equivalente di più di 20.000 dollari Americani. Annunci come questo non fanno presa tanto sugli Israeliani benestanti, quanto piuttosto sugli Israeliani più poveri, come giovani famiglie, immigrati arrivati da poco e Israeliani di colore. A queste persone del significato politico e religioso della terra in sé stessa non potrebbe importare di meno. Magari aspirano semplicemente a un livello di vita più alto per sé e per le proprie famiglie. In effetti, la maggior parte dei coloni Israeliani non si trasferiscono nei Territori Palestinesi perché pensano che “Questa terra è nostra e di nessun altro”, ma perché in un modo o nell’altro il governo li paga per farlo (con dollari versati agli Americani).
Una minoranza dei coloni sceglie di vivere nei Territori Palestinesi principalmente per motivi politici o religiosi. Molti di questi coloni ideologici – contrapposti a quelli economici – minacciano o attaccano frequentemente i coltivatori e le famiglie Palestinesi, perché sono convinti che i Palestinesi occupino la terra promessa da Dio agli Ebrei. A causa del crescente pericolo di attacchi da parte dei coloni, molti coltivatori hanno cominciato a chiedere di essere scortati da associazioni pacifiste Israeliane e organizzazioni internazionali. La speranza è che i coloni o i soldati violenti, in presenza di Israeliani o internazionali, siano spinti a controllarsi perché presi da vergogna o perché potremmo documentare le violenze e trasmetterne notizia ai mezzi di informazione Occidentali, su cui le violenze da parte di coloni o soldati Israeliani vengono spesso taciute.
Una delle organizzazioni che forniscono accompagnamento ai coltivatori Palestinesi è l’International Women’s Peace Service (IWPS), in cui presterò servizio come volontaria per i prossimi due mesi. IWPS è un’organizzazione pacifista di base dedicata a documentare e intervenire contro gli abusi dei diritti umani nella West Bank, e a sostenere Palestinesi e Israeliani nella resistenza non-violenta all’Occupazione. La nostra base è ad Haris, un piccolo villaggio della regione rurale di Salfit, nella West Bank. Quando di recente alcuni coltivatori del villaggio di Deir Istiya ci hanno contattato per chiederci di scortarli, tre donne dell’IWPS (me stessa inclusa) e cinque attivisti Israeliani si sono offerti per andare.
Anche se gli uliveti dei coltivatori di Deir Istiya non sono lontani dalle loro case, bisogna camminare a lungo per arrivarci: ai Palestinesi non è permesso usare la strada principale che collega il loro villaggio alle loro terre. La strada principale è un’autostrada dei coloni, costruita per collegare le colonie limitrofe tra di loro e con Israele propriamente detto. La maggior parte delle strade dei Territori Occupati è sottoposta a un regime di segregazione: le strade più vecchie, a volte sterrate, sono per i Palestinesi, e le moderne autostrade fino a quattro corsie sono per gli Israeliani. Queste ultime sono costruite sopra case demolite e uliveti appartenenti a villaggi Palestinesi locali, ma spesso i cartelli stradali non danno indicazione dell’esistenza di comunità Palestinesi passate o presenti. I cartelli indicano la strada per Tel Aviv, Gerusalemme e le colonie Israeliane più vicine. Quelli che abbiamo superato lungo la strada verso gli uliveti di Deir Istiya erano scritti in Ebraico, Arabo e Inglese, ma l’Arabo era stato cancellato con bombollette spray, presumibilmente da coloni ideologici.
I nostri primi giorni di raccolta con i coltivatori e gli attivisti Israeliani sono stati tranquilli. Ho provato meraviglia nel vedere la tecnica usata per separare le olive dalle foglie: viene tutto versato da secchi tenuti a una certa altezza, e il vento trasporta lontano le foglie leggere mentre le olive, ricche di olio, cadono insieme a formare un mucchio. L’atmosfera era piacevole: separare le olive, bere il tè, chiacchierare all’ombra degli alberi argentati. I Palestinesi hanno fatto del loro meglio con l’Ebraico, e gli Israeliani hanno provato a parlare un po’ di Arabo.
Oggi è stato meno sereno. Mentre ci spostavamo con la raccolta verso ovest siamo arrivati vicino ai bulldozer impegnati a scavarsi una strada attraverso gli uliveti di Deir Istiya. I bulldozer stanno radendo al suolo gli uliveti per espandere la vicina colonia di Revava. I miei amici di Deir Istiya hanno paura che le loro terre siano le prossime. Mentre continuavamo la raccolta, un colono di Revava armato di un fucile M16 semi-automatico si è avvicinato a noi e ha chiesto ai Palestinesi di mostrargli le loro carte di identità. I coltivatori non si sono rifiutati. Io e le altre tre donne dell’IWPS ci siamo avvicinate al colono per osservarlo, cercando di farci notare senza però mostrarci minacciose. Sapevamo che il colono non aveva nessun diritto di chiedere i documenti ai coltivatori – in un uliveto Palestinese – ma la nostra politica è di non prendere iniziative, e sostenere invece i Palestinesi nelle loro tattiche finché queste sono non-violente. I coltivatori ci hanno chiesto di restare da parte, e così abbiamo fatto. Sanno che obbedire è più facile e sicuro che rifiutare e rischiare così di dover affrontare la violenza dei coloni o dei soldati.
Dopo che il colono se n’è andato mi sono offerta di stare all’erta per prevenire l’avvicinarsi di coloni e soldati, e di tenere anche d’occhio gli asini dei coltivatori. (Avevo sentito di recenti furti di asini da parte dei coloni.) Mezz’ora più tardi tre soldati armati si sono avvicinati e ci hanno chiesto se avevamo visto nessuno nei paraggi. Gli abbiamo risposto che avevamo visto un uomo con un fucile. Allarmato, un soldato ci ha chiesto di descrivere quell’uomo. Gli abbiamo descritto il colono che avevamo appena visto e lui si è rilassato visibilmente: “Solo un Ebreo? Oh, il suo fucile è necessario – lui deve difendersi.”
I soldati ci hanno chiesto per quanto tempo saremmo rimasti lì e noi abbiamo detto “fino al tramonto”. Quando se ne sono andati abbiamo discusso dell’incontro e abbiamo deciso che in futuro invece di rispondere alle domande di persona le tradurremo in Arabo, anche quando le domande sono semplici. Il nostro scopo non è parlare o combattere al posto dei Palestinesi, ma sostenere il loro diritto a restare sulla loro terra e a resistere alle forze che la occupano.
Al ritorno dalla raccolta abbiamo dovuto camminare a lungo. Oltre a fare una lunga deviazione attorno alla strada dei coloni abbiamo dovuto trasportare tutte le olive della giornata in un singolo viaggio, perché a quanto pare nella zona ci sono stati recenti incidenti di furti di olive da parte dei coloni.
Quando siamo arrivati a casa nostra, ad Haris, abbiamo appreso che un coltivatore di un villaggio vicino è stato portato via dai soldati mentre raccoglieva olive con la sua famiglia e i tre volontari internazionali che li accompagnavano. Fortunatamente diverse associazioni sono state avvisate e si sono messe in moto. I Rabbini per i Diritti Umani (RHR), un’organizzazione pacifista Israeliana che combatte le violazioni dei diritti umani in Israele e nei Territori Occupati seguendo la tradizione Ebraica della Tikkun Olam (azione sociale), sta già lavorando per ottenere il rilascio del coltivatore. E i reporter della CNN che per caso si trovavano nei paraggi in quel momento avranno probabilmente una storia da raccontare. La copertura dei media internazionali e la presenza di Israeliani solidali ci rendono ottimiste, e domani alcune di noi si recheranno al villaggio per aiutare a completare la raccolta interrotta.