traduzione di Gianluca Bifolchi
Circa due settimane fa, il mio amico Dawud, un insegnante di inglese del liceo di Kufr’ain, mi ha chiamato quasi in lacrime per parlarmi della sosta al checkpoint che costò la vita al suo bambino di sei mesi. Subito dopo la mezzanotte dell’8 marzo, il figlio del mio amico cominciò ad avere problemi respiratori. I suoi genitori chiamarono subito un taxi per portarlo al più vicino ospedale di Ramallah, dove speravano di poterlo far mettere sotto una tenda ad ossigeno, che nel passato lo aveva aiutato a riprendersi dalle crisi respiratorie.
Appena la famiglia uscì dalla sua città palestinese nella West Bank verso l’ospedale palestinese, ma fu fermata al checkpoint di Atara, dove un soldato israeliano chiese i documenti di padre, madre ed autista. Dawud spiegò al soldato che suo figlio aveva bisogno di urgenti cure mediche, ma il soldato insisteva nella sua volontà di controllare prima i documenti, una procedura che in genere prende solo pochi minuti. Quella di Dawud era la sola automobile presente al checkpoint nel cuore della notte, e tuttavia i soldati trattennero le tre carte di identità per più di venti minuti, anche quando Dawud e sua moglie iniziarono a piangere e ad implorare che gli fosse consentito il passaggio. Dopo quindici minuti dalla bocca del bambino cominciò a fuoriuscire un liquido ed il mio amico disse tra i gemiti al soldato che li lasciasse passare, che il loro bambino stava morendo. Per tutta risposta il soldato disse che voleva perquisire l’auto, dopo che le carte di identità erano state controllate. All’1,05 del mattino il bambino di sei mesi di Khalid Dawud morì al checkpoint di Atara.
Durante la perquisizione dell’auto il soldato illuminò la faccia del bambino deceduto comprendendo cosa era successo, quindi restituì i documenti e permise alla famiglia distrutta dal dolore di passare.
Checkpoint e carte di indentità. Menzionate queste parole ed ogni vittima o testimone dell’apartheid può produrre dozzine di orribili storie come quella di Dawud. Il Sudfrica impiegava un sistema del genere nelle sue vecchie leggi di transito di apartheid, che il governo usava per monitorare il movimento degli Africani neri del sud. I neri dovevano portare documenti di riconoscimento personali, che richiedevano timbri governativi prima che i possessori potessero muoversi all’interno del loro paese. Allo stesso modo, ai Palestinesi della West Bank è richiesto di portare documenti emessi in Israele che indicano a quali aree, strade, e luoghi santi essi sono ammessi e a quali no. Le leggi di transito mettevano in grado la polizia Sudafricana di arrestare i neri a piacere. Così, le forze di occupazione israeliane usano documenti di identità non solo per monitorare il movimento dei Palestinesi, ma anche per giustificare la frequente arbitraria detenzione e l’arresto in un regime di generale impunità. Gli abitanti ebraici della West Bank (come tutti gli Ebrei di Israele) hanno diversi documenti di identità, che proclamano la loro nazionalità “ebraica”, e concedono loro il permesso automatico di accedere a moderne strade e a quasi tutti i luoghi santi chiusi alla maggioranza dei Palestinesi.
Quarantasette anni fa oggi, il 21 Marzo 1960, centinaia di Sudafricani neri si raccolsero a Sharpville, Sudafrica, e marciarono insieme per protesta contro le leggi di transito razziste e disumane del sistema dell’Apartheid. Le forze di polizia sudafricane controllate dai bianchi spararono sulla folla inerme, uccidendo almeno 67 persone e ferendone tre volte tante, tra cui uomini, donne e bambini. Testimoni dicono che la maggior parte della gente era stata colpita alle spalle mentre fuggiva.
Quasi 50 anni dopo il massacro di Sharpville, le leggi di transito ancora opprimono la vita della gente. Ogni giorno incontro nella West Bank Palestinesi che vivono senza permessi e carte di identità, sia perché Israele non gli ha mai concesso il diritto di residenza sulla loro stessa terra, sia perché i soldati o la polizia hanno confiscato i loro documenti come punizione o anche solo come forma di molestia. Recentemente ho intervistato la famiglia di Ibrahim, uno studente di veterinaria ventenne arrestato tre anni fa per il crimine di non avere una carta di identità emessa da Israele. I genitori di Ibrahim erano nati e cresciuti nella West Bank e possedevano terra nel loro piccolo villaggio di Fara’ata, dove li ho intervistati. Nel 1966, la coppia si spostò in Kuwait e cominciarono a lavorare all’estero. L’anno successivo, Israele occupò la West Bank e subito dopo fece un censimento. Ogni Palestinese che non era registrato per ragioni di assenza – o perché studiava all’estero, visitava la famiglia, o qualunque altra cosa – divenne un rifugiato. Israele, il nuovo occupante, privò i genitori di Ibrahim e centinaia di migliaia di altri Palestinesi del loro diritto a tornare alle loro case e alla loro terra, ed aprirono la via alla colonizzazione della West Bank per ogni Ebreo che avesse voglia di trasferirsi.
La strategia israeliana nel censimento del 1967 ha un’impressionante rassomiglianza con la Legge di Proprietà degli Assenti che Israele approvò dopo le espulsioni del 1948. Secondo Passia, la legge “definisce assente una persona che in qualsiasi momento nel periodo tra il 29 Novembre 1947 ed il 1° settembre 1948 era in qualunque parte di Israele fuori dal territorio di Israele (cioè West Bank e Striscia di Gaza), o in altro stati arabi”. La legge sancisce che la proprietà di tale assente sarebbe stata trasferita sotto la Custodia della Proprietà degli Assenti, senza nessuna possibilità di appello o compensazione. Da lì, per mezzo di un’altra legge, la proprietà veniva trasferita così che quanto era stato lasciato indietro dai rifugiati palestinesi nel 1948 (ed anche alcune delle proprietà appartenenti a Palestinesi che ora erano in Israele), passò allo Stato di Israele". Fino ad oggi, il Fondo Nazionale Ebraico, che ereditò la Terra dei Rifugiati, insieme allo Stato d’Israele possiede il 93% della terra d’Israele. Questa terra è esclusivamente riservata agli Ebrei ed è quasi impossibile che venga ceduta a cittadini palestinesi di Israele o ai loro veri proprietari: i rifugiati del 1947-1948.
Quando dico 93% della “terra d’Israele”, sto parlando della terra all’interno delle frontiere di Israele internazionalmente riconosciute del 1967, a differenza della Legge sulla Proprietà degli Assenti, del 1950, che definisce la “Terra d’Israele” come l’insieme di Israele, West Bank e Striscia di Gaza. Questo era molto prima del 1967, ma rende l’occupazione dei territori di quasi due decenni dopo una stupefacente coincidenza o qualcosa di niente affatto sorprendente.
Fino ad oggi, Palestinesi come i genitori di Ibrahim che si trovavano nel posto sbagliato durante l’occupazione del 1967 ed il censimento – insieme ai loro bambini – devono fare richiesta per ciò che viene chiamato “riunificazione familiare” presso il Ministero degli Interni così da poter ottenere la residenza legale nelle loro case e nei loro villaggi. Scriva Passia, "la decisione di rispondere positivamente o negativamente a queste richieste è in definitiva, secondo la legge israeliana, a discrezione del Ministro degli Interni, che non è tenuto a dare spegazioni in caso di rifiuto. Nel maggio 2002, Israele sospese le procedure di riunificazione familiare tra i cittadini palestinesi di Israele ed i Palestinesi della West Bank e Gaza per impedire a questi ultimi di acquisire la cittadinanza israeliana, sostenendo che la crescita della popolazione non ebraica di Israele era una minaccia al “carattere ebraico” dello stato".
Le richieste di riunificazione familiare non riguardanti cittadini israliani erano già state bloccate lo scorso anno dopo le elezioni di Hamas, compreso la domanda da parte di Ibrahim e della sua famiglia. La famiglia fece legalmente ritorno nella West Bank nel 1998 quando dagli accordi di Oslo sembrava che i Palestinesi avrebbero avuto il loro stato, ma quando si vide che l’occupazione d’Israele e gli insediamenti non facevano che accelerare, Ibrahim e i suoi genitori rimasero con ancor meno diritti dei Palestinesi con residenza nella West Bank. Sebbene l’Autorità Palestinese e il DVO furono d’accordo nel ritenere che la famiglia di Ibrahim potesse vivere nel loro villaggio (con i vantaggi di istruzione e cure mediche gratuite), essi continuarono ad aver bisogno del permesso di Israele.
Ibrahim iniziò la scuola di veterinaria all’Università di An-Najah nel 2000, ma dovette fare il pendolare sulle colline di Nablus dato che i soldati di servizio ai checkpoint non gli avrebbero mai permesso di entrare in città senza la carta di indentità. Il 23 marzo, 2004, durante l’ultimo semestre di Ibrahim prima del diploma, l’esercito israeliano lo catturò che andava a scuola a Nablus e lo mise in prigione. Questo venerdì sono tre anni esatti che Ibrahim – ora ventitreenne – è in galera, ed il suo solo crimine è il non aver posseduto una carta di identità israeliana. Il primo anno Israele ha incarcerato Ibrahim all’interno della West bank, ma gli ultimi due anni lo ha trattenuto su territorio israeliano, una violazione della legge internazionale -gli occupanti non possono tenere prigionieri e detenuti provenienti dalla popolazione occupata sul territorio della potenza occupante, a ragione di quanto ciò limiti i loro diritti di prigionieri. Infatti, la politica di Israele di detenere i prigionieri in Israele significa che le loro famiglie spesso non possono visitarli se non hanno il permesso di entrare in Israele, e non possono avere neppure un avvocato palestinese perché gli avvocati della West Bank e della Striscia di Gaza non possono esercitare la professione in Israele. Il padre di Ibrahim, ad esempio, è un avvocato ma non può fare nulla per aiutare suo figlio senza una carta di identità, per non parlare della licenza ad esercitare in Israele. Da quando egli è tornato dal Kuwait ha lavorato come pastore, dato che con può recarsi con sicurezza in nessun posto che non sia il suo villaggio senza documenti.
La situazione di Ibrahim è peggiore di quella di molti altri. Dal momento che la sua famiglia non ha carte di identità non può neanche fare domanda per entrare in Israele e recarsi in visita da lui. Persino la sorella di Ibrahim, che ha ottenuto la carta di identità attraverso suo marito al tempo in cui talvolta Israele concedeva la residenza dopo il matrimonio, non può visitare suo fratello perché gli è impossibile provare la sua parentela con una persona che non ha un nome ed un’identità ufficiale.
“Nessuno nella sua famiglia ha visto Ibrahim negli ultimi due anni”, mi ha detto sua madre Hanan mentre teneva le mie mani nelle sue al termine dell’intervista. “Io gli mando spesso regali e ricevo notizie attraverso la madre di un altro detenuto della West Bank nella stessa cella, un’amica che occasionalmente ottiene il permesso da Israele per andare a visitare suo figlio. Ibrahim non può neppure usare il telefono”, dice Hanan inziando a piangere. “Lui è la prima cosa a cui penso quando mi sveglio al mattino e l’ultima cosa prima di addormentarmi. Non sopporto l’immagine di lui lì in prigione, forse per il resto della sua vita, sapendo quanto probabilmente sta soffrendo, sapendo che non c’è niente che io possa fare per aiutarlo. Lui non ha fatto niente di male. Il suo solo crimine è di essere nato in Palestina”.
Hanan ha sei figli, tre dei quali hanno deciso di stabirsi in Giordania, dove possono avere la cittadinanza (come tutti i Palestinesi che avevano carta di identità giordana prima del 1967), e Hanan non li vede da nove anni. Lei piange di nuovo appena mi dice che ha nipoti, generi e nuore che non ha mai visto. Anche se ora lei volesse la cittadinanza giordana, non potrebbe averla per essere stata così a lungo fuori dalla Giordania. Ed i membri della famiglia che sono tornati per reclamare la loro terra e i loro diritti nella West Bank sono diventati degli apolidi, come molti milioni di altri Palestinesi rifugiati della diaspora.
In riconoscimento dei tragici eventi che ebbero luogo nel Massacro di Sharpville nel 1960, le Nazioni Unite dichiararono il 21 maggio Giornata Mondiale per l’Eliminazione della Discriminazione Razziale, invitando tutti gli stati del mondo a raddoppiare i loro sforzi a combattere tutti i tipi di discriminazione etnica. Tuttavia in Israele, un paese membro delle Nazioni Unite, l’appartenenza etnica ancora determina la nazionalità (non c’è alcuna nazionalità israeliana: i Palestinesi sono “Arabi”, gli Ebrei sono “Ebrei”), la destinazione delle risorse ed il diritto di entrare in possesso di terra dello stato o del Fondo Nazionale Ebraico. Ci sono leggi discriminatorie che separano le famiglie palestinesi residenti in Israele e che minacciano di revocare la cittadinanza israeliana ai Palestinesi e la Facoltà di Medicina dell’Università di Tel Aviv ha già annunciato un regolamento che di fatto colpisce l’ammissione di studenti palestinesi.
Nel resto della cosiddetta “Terra di Israele”, la discriminazione etnica è molto peggiore, per le norme di segregazione che riguardano le strade e il sistema legale. So cosa Israele potrebbe dire: questa è solo autodifesa. Fino a un certo punto è vero: se Israele desidera controllare il territorio in suo possesso da più di due terzi della sua storia, e rimanere uno stato ebraico esclusivista, ed essere anche democratico, deve trovare un modo di creare una maggioranza ebraica su una striscia di terra su cui la maggior parte di abitanti non sono ebrei. Ci sono diverse possibili soluzioni: la deportazione di massa (come si provò a fare nel 1948, ed è tuttora proposto dal vice primo ministro Avigdor Lieberman), c’è l’imprigionamento di massa (al momento in cui scrivo i Palestinesi detenuti in Israele sono più di 10.000), c’è il genocidio… o c’è l’apartheid. Le alternative più umane di ritirata di Israele nei suoi confini del 1967 o di diventare uno stato per tutti i suoi cittadini non sono neanche vagamente contemplate.
L’apartheid e la segregazione sono fallite nel Sudafrica e negli Stati Uniti e falliranno anche in Israele e in Palestina. Il nazionalismo etnocentrico fallì nella Germania nazista e fallirà nell’Israele sionista. Ma finché esso continua, gli Ibrahim e i figli di Khalid della Palestina contano su di voi e su di me per fare qualcosa, per dire qualcosa, visto che loro non possono farlo. Il silenzio è complicità. Non possiamo aspettare che le cose peggiorino. La pulizia etnica e l’apartheid sono andati troppo oltre.